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«La mia vita al Cardarelli: oltre le barelle, c’è un ospedale che funziona»

Intervista a Fabio Fumo, chirurgo al Cardarelli, che ci racconta una realtà spesso bistrattata e che lavora in continua emergenza.

«La mia vita al Cardarelli: oltre le barelle, c’è un ospedale che funziona»

Abbiamo già parlato, su queste pagine, dell’intervista a Repubblica in cui la scrittrice americana Elizabeth Strout, dopo essere stata ricoverata al Cardarelli per una grave appendicite, ha dichiarato di essere stata “salvata da Napoli”. Vi abbiamo raccontato il nostro stupore di fronte al sentimento di ‘sorpresa’ della Strout nell’essere sopravvissuta al ricovero d’urgenza in una struttura ospedaliera della nostra città. La nostra sensazione è stata quasi che la Strout, giunta in un posto – Napoli – che forse aveva sempre visto come Kabul, sia rimasta letteralmente stupefatta di non essere morta.

Di questa nostra percezione abbiamo voluto parlare con un chirurgo dell’ospedale napoletano di cui si ‘celebrano’ sempre più spesso, sui giornali, le inefficienze, prima fra tutte la situazione dei degenti, abbandonati a se stessi sulle barelle, nei corridoi.

Il chirurgo in questione è Fabio Fumo, classe ’62, che al Cardarelli si trova dal 2006, dopo aver lavorato per anni nel privato, presso diversi pronto soccorso, tra cui quello di Nola, e presso l’Ospedale di Caserta. Fumo, che opera nel reparto di Chirurgia 1, ci è sembrato un chirurgo molto particolare, uno che non rinuncerebbe mai al proprio lavoro e, soprattutto, a svolgerlo proprio al Cardarelli. Appassionato di cucina, ha scritto un libro che si intitola “Facecook” (che ha dedicato, nelle prime pagine del libro, al tragitto di andata e ritorno dal pronto soccorso di Nola, ‘durante il quale il mio cervello esplodeva, perché andavo o tornavo da un luogo di frontiera ospedaliera’), ha dipinto quadri con cui ha partecipato a mostre personali e collettive ed ha messo su un gruppo Facebook dedicato ai guanti spaiati perduti in giro per il mondo, “Trova il tuo guanto perduto, con una descrizione in cinque lingue, tra cui il giapponese, dove utenti da tutto il mondo raccolgono foto di guanti spaiati trovati nei posti più impensati.

Dottor Fumo, lei cosa ha letto nell’intervista alla Strout? Condivide la nostra percezione che la scrittrice si sia stupita di essere stata salvata proprio in un ospedale napoletano?

«Ho avuto sicuramente una percezione di riconoscenza leggendo le sue parole, ma in parte anche di stupore: mi è sembrata sorpresa del fatto che si potesse trovare una buona sanità in un posto inaspettato».

Perché, secondo lei, la Strout ha pensato di essere una miracolata?

«A parte il fatto di aver dovuto affrontare un’emergenza chirurgica lontano da casa, cosa che spaventerebbe chiunque, e di aver ricevuto comunque un trattamento chirurgico adeguato, vi è lo stupore che colpisce gli stranieri quando usufruiscono del nostro sistema sanitario nazionale e si rendono conto che non devono pagare nulla: non riescono a crederci. Addirittura ci dicono ‘ma abbiamo l’assicurazione, vogliamo pagare’ e quando si sentono rispondere che non è necessario restano frastornati. La Strout è andata per sua scelta in una camera a pagamento, per la quale ha pagato solo l’alloggio, ma il personale medico che l’ha assistita è comunque quello pubblico».

Mi sta dicendo che chi si può permettere di pagare accede ad una palazzina diversa ma il medico è comunque pagato dall’Ospedale?

«Sì, è una procedura che è possibile scegliere nel Cardarelli. Il paziente può essere operato nel pubblico ed eventualmente decidere di voler proseguire la degenza in una stanza privata – come nel caso della Strout – ma il medico che lo segue lo fa sempre nella sua veste di dipendente pubblico. È un’evenienza impegnativa per il chirurgo che, in un caso simile, è costretto poi a seguire il paziente in un luogo differente dal proprio reparto, ma comunque è una opzione in più per il paziente».

Lei ha lavorato per sette anni in vari pronto soccorso, prima di approdare in Chirurgia, al Cardarelli. Cosa significa affrontare le urgenze?

«È una palestra di vita, oltre che naturalmente professionale, fondamentale nella formazione. Spesso mi sono ritrovato a pensare a quanto bene farebbe ad ogni medico, anche al termine della laurea o durante la specializzazione, svolgere un anno di formazione in pronto soccorso. Sono anni indimenticabili sul campo, come dico io, di ‘battaglia’. In una giornata media il Cardarelli registra tra i 200 ed i 300 accessi ma il problema è che la gente arriva a ondate. Una volta lessi una dichiarazione di Clinton che diceva che il mestiere del Presidente era fatto di 23 ore e 45 minuti di noia assoluta con 15 minuti di terrore e mi ci ritrovai parecchio. A volte il lavoro è routinario, vedi cose che sai come affrontare, poi all’improvviso ti trovi davanti 15 minuti di terrore dove può succedere di tutto, dalla patologia importante che devi affrontare tempestivamente, a fattori esterni come il familiare che ti aggredisce o che distrugge il reparto, due o tre traumi gravi o due o tre infarti contemporaneamente da trattare».

Cosa succede quando un paziente arriva al pronto soccorso?

«Adesso il sistema prevede che si venga classificati con dei colori a seconda della gravità: si va dal codice bianco per patologie che potrebbero essere viste tranquillamente da un medico di base, fino al codice rosso di priorità assoluta perché c’è pericolo di vita. Una volta risolta l’emergenza si decide se dimettere il paziente o ricoverarlo presso un reparto di degenza».

Quello del Cardarelli non è l’unico pronto soccorso a Napoli. Come mai la gente arriva in gran parte lì?

«Per diversi motivi, il principale è il fatto che l’ospedale mantiene un pronto soccorso con annessa radiologia in grado di accogliere e trattare centinaia di pazienti al giorno, ha la medicina d’urgenza, l’Utic, unità di terapia intensiva cardiologica, la neurochirurgia, l’ortopedia, la chirurgia d’urgenza, la rianimazione, il trauma center, la radiologia vascolare, il pronto soccorso ostetrico. Sono tutte divisioni che lavorano a ritmi intensissimi e con risultati eccellenti. E poi il Cardarelli ha delle specialità che non sono presenti in altri ospedali, come il centro ustioni e la medicina iperbarica».

Eppure quando si parla del Cardarelli quasi sempre si parla di barelle nei corridoi e di condizioni disumane in cui vengono lasciati i pazienti. Perché?

«Per tanti motivi. Perché il disservizio, vero o presunto, fa più notizia. Perché alcuni reparti come il pronto soccorso, la medicina d’urgenza e la chirurgia d’urgenza per ovvi motivi di iper-afflusso non possono che essere caotici e sovraffollati, tanto che a volte si è costretti al blocco dei ricoveri ordinari per fare in modo che le chirurgie e le medicine di elezione possano assorbire l’elevato numero dei pazienti presenti nelle urgenze. Mi rendo ben conto che, a volte, anche le migliori professionalità possano passare in secondo piano oppure non essere apprezzate di fronte a tanta confusione».

È un problema di sovraffollamento, quindi?

«Assolutamente. Comunque, in un ingranaggio che fa 90mila accessi, 50mila ricoveri e centinaia di migliaia di prestazioni è verosimile che si possa creare un accavallamento. Spesso le cose non funzionano perché gli accessi sono troppi. Le racconto, però, una curiosità: quando lavoravo in Pronto soccorso, nel 2008, venne istituito un servizio di ricerca di posti letto nel territorio. In pratica potevamo trasferire in un letto in un’altra struttura i nostri pazienti barellati. Risultato: rifiutavano tutti! Preferivano rimanere da noi in barella in condizioni disagevoli anziché in un posto letto in un’altra struttura. Un motivo ci sarà!».

Nel suo reparto, Chirurgia 1, come funzionano le cose?

«A mio parere, bene. Facciamo chirurgia laparoscopica avanzata, da un anno chirurgia robotica, abbiamo una Senologia che lavora a pieno ritmo, una Unità di chirurgia del pancreas che cresce sempre più come centro di riferimento, a breve avvierò anche la possibilità di cura delle carcinosi peritoneali con trattamenti integrati chirurgici e medici. Inoltre operiamo tutta la patologia chirurgica benigna. Abbiamo 18 posti letto, spesso accogliamo anche barelle. Le stanze sono da due letti, al massimo tre, alcune più grandi, altre più piccole. Tutto naturalmente gratuito, pubblico. Ah, e a proposito dell’intervista alla Strout, i guanti li usiamo sempre, anche per protezione personale. Quella raccontata dalla scrittrice è sicuramente un’eccezione. Mi chiede come risolvere il problema delle barelle… è una domanda da un milione! Bisognerebbe ampliare i reparti, creare più posti, assumere più personale, è un problema della sanità in generale. E poi c’è un altro fattore da non sottovalutare: io oggi ho 54 anni e sono il secondo in ordine di giovinezza del mio reparto, prima di me c’è un collega cinquantaduenne, poi tutti più anziani. Non va bene. Sono indispensabili assunzioni di forze, energie ed entusiasmi nuovi».

E negli altri reparti che situazione c’è?

«La maggior parte dei reparti è come il mio. Non esistono camerate, solo nel padiglione delle emergenze, oltre le stanze a due posti, ci sono anche le camerate con sei posti letto divisi da sei pareti. Al pronto soccorso ci sono le tende che separano le barelle. Poi la differenza sta anche nella data di costruzione dei reparti. Alcuni, come il mio, sono nuovi, altri, come quelli delle medicine, sono sicuramente più datati. Ma qualunque sia l’architettura, qualsiasi sia l’ambiente, vedo colleghi che lavorano e si dedicano. Sinceramente non saprei indicarle un reparto migliore dell’altro, consiglierei il Cardarelli per qualsiasi patologia. Ad esempio, per collegarci ai recenti fatti di cronaca avvenuti a Roma, abbiamo un reparto dedicato ai malati considerati terminali, con stanze singole dove sono ricoverate le persone in fin di vita per le quali i familiari preferiscono l’ospedale anziché tenerli a casa. L’accoglienza, nel reparto, è amichevole, commovente, i familiari, dopo aver perso i propri congiunti, ringraziano per come sono stati assistiti, le stanze sono tranquille, è un ambiente perfetto».

Quando qualcosa si inceppa nei meccanismi di assistenza ospedaliera cosa può fare l‘utente?

«Ci sono tanti strumenti a disposizione dell’utenza, solo che oggi in tanti non si rivolgono ad esempio alla direzione sanitaria, ma protestano urlando o, peggio, aggredendo fisicamente il personale sanitario, rompendo attrezzature e materiali ospedalieri o scrivendo sui social, ma è una critica distruttiva. Occorrerebbero delle segnalazioni fatte alla luce del sole, per correggere le procedure e gli ingranaggi. Chi ritiene di essere stato vittima di un disservizio dovrebbe avere non solo il diritto ma il dovere civico di segnalare in maniera pacata la propria esperienza e costruttivamente aiutare l’ospedale a risolvere».

E cosa fa l’Ospedale per migliorare le sue pratiche?

«C’è un progetto in cui sono coinvolto in prima persona, tanto per cominciare. Proprio in questi giorni sto concludendo un corso di formazione per facilitatori: si tratta di un ruolo che ha a che fare con la gestione del rischio clinico, con il segnalare tutte le cose che non funzionano e poi provvedere a sistemarle. Non lo ha quasi nessuno un meccanismo del genere: solo la Toscana e in parte l’Emilia Romagna. Al Cardarelli siamo in trenta a frequentare questo corso. Una sorta di educazione all’autoconsapevolezza affinché l’episodio incriminato non accada più. Una specie di autoriparazione da parte dello stesso Ospedale. Trovo sia una cosa molto matura e civile».

Nella situazione del Cardarelli e della sanità campana in generale, quanta parte di responsabilità hanno la Regione ed il Ministero?

«Le istituzioni sono strette tra incudine e martello. La spesa sanitaria ha sfondato ogni muro, anche perché ci sono ancora delle sacche di spreco, ma hanno dovuto tagliare per forza, non era possibile non farlo. È ovvio che nel taglio finisce tutto. Come medico è facile dire che il taglio non ci deve stare, ma se fossi dall’altro lato forse direi che bisogna tagliare. Certo chi decide i tagli non lo fa per sadismo, ma fino a che punto le persone che consigliano i tagli conoscono davvero la vita all’interno degli ospedali? Tutto ciò che succede qui dentro, come si lavora, le condizioni in cui a volte siamo costretti a risolvere i problemi più gravi ed immediati?».

Ma allora sarebbe meglio, forse, un sistema sanitario a pagamento?

«Assolutamente no, è comunque da privilegiare il nostro, gratuito. Perché anche quello a pagamento non funziona bene, tanto per cominciare: negli Stati Uniti hanno le stesse problematiche nostre, ma gli utenti pagano. Del resto se l’OMS certifica che il nostro vituperato sistema sanitario nazionale è secondo al mondo per qualità, un motivo dovrà pure esserci».

Quanto fa male a un chirurgo come lei leggere e ascoltare continuamente critiche all’ospedale e non elogiare le eccellenze che pure ci sono?

«Fa malissimo. Si parla tanto del personale infermieristico, ad esempio, ma i miei infermieri sono tutti motivati e preparati. Certo, puoi trovare anche lo stressato, in ospedale, quello che non è abituato, che risponde male, che non sa come reagire, ma credo che sia fisiologico. Io negli anni ho sviluppato un mio metodo. Credo sia dipeso anche molto dal mio carattere, che è stato sempre molto colloquiale. Se mi aggredisci, io non ti aggredisco a mia volta, ma ti parlo, provo a non farmi trascinare nel litigio, nella rissa. In tanti, quando vengono presi dalla rabbia e dall’impotenza ti aggrediscono, ma se trovano dall’altro lato una persona non aggressiva, non disposta a scendere sul loro campo, poi ti chiedono scusa. È un fatto caratteriale ma ne ho fatto anche una necessità: se scendi sul piano fisico, a tu per tu con il paziente, sei finito».

Cosa le piace della vita da chirurgo? Me la immagino come una vita di patimenti…

«Sì. È una vita di stenti e patimenti, di grosso sacrificio, che, se la confronto con quella di altri amici non ha eguali, ma caratterialmente sono uno che si deve muovere di continuo, la fatica non mi spaventa, se sto dieci ore in sala operatoria non me ne accorgo, se invece per due ore resto senza fare niente mi avvilisco. Mi piace il contatto con la gente, tantissimo, mi piace materialmente operare, risolvere le complicanze, mi piace il mio lavoro. È la cosa che mi piace di più. Ma onestamente devo dire che è una caratteristica che accomuna tutti i chirurghi. Le racconto un episodio recente che la dice lunga sulla dedizione: dovevo organizzare un incontro con il primario di oncologia e la primaria di radiologia, ebbene, quest’ultima ha voluto prima controllare i suoi turni e poi prendere l’appuntamento. Parliamo di un primario, una che potrebbe farsi sostituire da chiunque in qualsiasi momento, eppure la sua priorità è stata controllare i propri turni. Sono in tanti a comportarsi così, solo che la gente non lo sa. Personalmente ho un ottimo rapporto anche personale con i miei pazienti, ma non sono assolutamente una mosca bianca. Credo che al Sud sia sviluppata una capacità di entrare in empatia con il paziente. La stessa Strout è rimasta colpita anche da questo: dall’umanità».

Perché, secondo lei, a Napoli non c’è la percezione dell’eccellenza ospedaliera?

«Perché esistono ancora vecchi retaggi. C’è ancora chi per operarsi alla tiroide, che è una nostra specialità di eccellenza, va a Pisa. E a Pisa gli dicono: ‘Ma come? Viene da Napoli? Noi i nostri pazienti li mandiamo lì!’. Per il tumore al seno vanno a Milano. A volte mi chiedono: ‘Dove devo andare per fare la chemio?’. Al Cardarelli, rispondo, è lì che l’ha fatta mia madre. È un retaggio ancora fortissimo: credere che al Nord siano meglio che da noi. Le racconto un aneddoto. C’era uno specializzando che è stato da noi sei mesi, poi ha scelto di fare formazione al Niguarda. Quando l’ho salutato gli ho detto: ‘Teniamoci in contatto, ti sembreremo passato remoto tra sei mesi’. Anche io, forse, ero vittima di questo mito. Dopo sei mesi invece, è tornato da noi. Ha detto che anche al Nord esistono le nostre stesse criticità, che il rapporto medico-paziente è spersonalizzato, che il medico, spesso, non conosce proprio il paziente che deve operare. Arrivi in ambulatorio, uno ti visita, ti manda ad operarti, ti opera un altro e un altro ancora ti dimette. È una metodologia che, sento dire, si vorrebbe introdurre anche da noi, mi auguro di cuore che non avvenga mai».

Insomma, se le capitasse qualcosa, dove andrebbe a farsi curare?

«Beh, penso che chiamerei prima la Strout al telefono. Sono certo che direbbe al Cardarelli».

 

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