ilNapolista

La vita quotidiana di un tifoso del Napoli (1- continua)

Al via la rubrica “Psicopallonologia”: la vita quotidiano di un tifoso del Napoli tra la psicologa e l’ambiente che lo circonda.

Mercoledì 5 ottobre. Il foglio.

Da tre notti dormo poco e male. L’insonnia mi assale e questo mi porta anche a fumare molto più del solito. Quando poi Morfeo decide di ricordarsi di me, ho gli incubi. Non ho ricordi precisi, ma mi sveglio di soprassalto con una sensazione orrenda addosso, come se il Napoli avesse perso una partita con la Juve a causa di un autogol al 93′.

Stasera, nell’ultima seduta, ho fatto presente questo problema alla mia psicologa. Ho anche aggiunto che durante la giornata mi sono chiuso in un mutismo eccezionale. Un silenzio stampa in piena regola. E la voglia di uscire e socializzare è pari a zero. Mi è tornata anche l’atavica fobia per i terremoti. Ho sempre la sensazione che mi tremino la sedia e il pavimento sotto i piedi e in ogni luogo mi trovi, fisso i lampadari cercando lo sguardo di chi mi sta vicino per capire se è solo suggestione. È solo suggestione.
Questo stato è ciclico. Non è la prima volta che mi capita. E gli incubi, aggiunti all’idea della tragedia, stanno prendendo troppo spazio nel mio tempo.
La psicologa mi ha così chiesto di prendere un foglio, prendere una penna e scrivere. Scrivere qualsiasi cosa mi venga in mente. Senza preconcetti, né filtri. Mi ha raccomandato di non usare computer o altri supporti che non siano una penna e un foglio. Dice che è per una questione di intimità. Che leggere la propria calligrafia instaura un rapporto con noi stessi più profondo, mentre le lettere preconfezionate di un font già di per sé frappongono un vetro, sì trasparente, ma non reale, tra il Me e l’Io. In parole povere, si vede ciò che si vuol vedere. È come la moviola di Biscardi ai tempi di Calciopoli.
Non c’ho capito quasi niente, ma pur di farmi passare l’ansia, eccomi qui. Scrivo a Peppe Topputo detto ‘o Nglese (perché si narra che mio padre provenisse da una famiglia anglosassone) e Peppe Topputo dovrebbe rispondermi.
Vado in analisi non so più da quanti anni e considero quell’ora alla settimana il mio unico punto fermo. Non ho mai capito se abbia risolto un solo problema della mia esistenza, ma ho una voce dentro che mi invita a proseguire questo percorso.
Secondo la psicologa, questo stato è solo la punta dell’iceberg di una ben più profonda situazione: questi accenni d’ansia e piccoli segnali depressivi sono dovuti all’età, come spiega benissimo un professore irlandese, che mi sembra si chiami Herby. L’aumentare della farina alle tempie, l’aumentare di marcati solchi al contorno occhi, l’aumentare del peso e della fatica a far deambulare il corpo, mi porta inevitabilmente ad aumentare un senso di inadeguatezza, vuoto e fibrillazione emotiva.
“Gli input depressivi non vanno combattuti, ma individuati ed affrontati. La soluzione è nella comprensione” questa la frase della seduta di oggi, ripresa da un vecchio luminare americano della mente che, se non erro, si chiamasse Wouters.
Scrivere di sé stessi è il primo passo per l’individuazione delle cause.
La prima cosa che mi ha fatto capire questo invito è che sono un ribelle. Le mia abitudini, buone o cattive che siano, prevalgono sulle regole. Sono un Lavezzi della penna. O almeno così mi illudo. Salvo non sia mia moglie a dettarle. Non appena ho preso la penna tra le dita mi sono sentito come quando mio nipote Filippo detto ‘o stivale (perché suo padre usa dalla tenera età indossare stivali di pelle in qualsiasi stagione, anche le più torride) mi chiedeva di aiutarlo con le divisioni a tre cifre. Di getto gli dicevo “ma non puoi usare la calcolatrice?”.
Fino a poco tempo fa, il mio rapporto con la penna era indissolubile. I miei problemi di memoria breve, per una “pigrizia concentrativa”, così l’ha definita la mia psicologa, mi inducevano a ricorrere a una miriade di fogli e note che riempivo di appunti e informazioni per evitare di dimenticare ciò che mi era stato detto e chiesto, specie da mia moglie. La sbadataggine poi mi ha indotto a fornirmi di una quaderno a parte su cui appuntare dove posizionavo i foglietti che mano mano dimenticavo in giacche e pantaloni. Questo stress si è concluso con l’avvento dello smartphone che mi ha permesso di utilizzare le varie applicazioni adatte a questo scopo. La mia disorganizzazione non è scemata ma, per lo meno, tutto è concentrato in una scatoletta ed è molto rassicurante sapere che in un angolo remoto di essa prima o poi troverò ciò che ho dimenticato o rimosso. Ormai oggi la penna la uso solo per apporre qualche firma su documenti di lavoro o per scarabocchiare mostri quando il mio amico Gaetano, detto ‘a gruccia (per le dimensioni filiformi del suo torace) mi tiene ore al telefono a sfogarsi per le sue pene d’amore a causa di Marta. La penna è uno schema che non mi si addice più, non sono più abituato e per ora ho deciso di lasciare la biro d’oro che mi regalò mio nonno alla prima comunione nel cassetto. Nello smartphone ho appuntato in quale cassetto.
L’insonnia. 
Amo la notte. È l’unica fase della giornata in cui nessuno può chiedermi nulla. A parte quando Gaetano ‘a gruccia mi tiene attaccato al telefono per ore a raccontarmi della sua fissazione per il 4-4-2 e di quanto stia male per Marta. Ho abbandonato i sermoni notturni di Caressa alla tv, le ore a rigirarmi nel letto e le pecore non le conto più. L’aria è buona e mi piazzo direttamente fuori al terrazzino con la sdraio, il cuscino, i piedi sul tavolino, un bicchiere largo di limoncello (quello di mia madre) e il pacchetto di sigarette. E penso (e scrivo). Ottimizzo il tempo e non mi stresso tra le lenzuola.
Le poche ore di sonno però mi fanno fumare di più. Rispetto a me, Zeman e Sarri sono dei salutisti. Fumo senza sosta perché ho più tempo e perché in quel tempo sono più nervoso. Da poco è partita questa campagna antifumo dello Stato che con immagini raccapriccianti ci induce a smettere. E ho scoperto che tra poco ci sarà un ulteriore aumento di 20 centesimi sul pacchetto. Fumare fa male, nuoce gravemente alla salute, ne siamo consapevoli, ma almeno non ci uccidete la salute ricordandocelo di continuo. Mi hanno costretto a comprare uno di quegli astucci che servono a coprire il pacchetto e l’idea di smettere, seppur mi sfiori ogni due giorni, mi dà sempre la stessa risposta da anni: non è il momento giusto.
Visto che ci tengono così tanto, potrebbero vietarle e così ci togliamo il pensiero e quelle immagini terribili. Oppure, secondo una mia teoria, potrebbero darle gratis. Il vizio si paga e senza moneta, non è un vizio. E senza vizio e senza moneta, ci si stanca prima. Il gratuito, inconsciamente, non ci appartiene. E ciò che non ci appartiene, alla lunga diventa noioso. Come una partita tra Chievo e Crotone.
Ultimamente ho anche messo qualche chilo. Mia moglie che è sempre alle prese con diete e con la patologia del fisico perfetto, vorrebbe che facessi attività la sera quando torno dal lavoro, ma io rinvio sempre al lunedì successivo perché proprio quel lunedì mi sento più stanco del solito.
Tra me e Stella le cose non vanno come dovrebbero. Siamo in uno di quei periodi in cui parliamo sempre meno. È colpa mia, è colpa sua. Si è convinta che perdo troppo tempo con il lavoro, parlandomene come se fosse un giro di birre al bar con gli amici o una partita di calcetto, e che dovrei dedicarmi più alla famiglia e prendermi più responsabilità. Ultimamente dice di vedermi troppo distratto, con la testa tra le nuvole, e troppo concentrato con le mie stupidaggini. Non specificando mai quali siano, salvo, nei momenti di rabbia, rinfacciarmi l’inutilità dei famosi 22 mutandoni che corrono dietro a un pallone.
Mia moglie non ama il calcio. Cioè, in realtà per mia moglie il calcio non esiste. Anche se in passato le cose erano diverse. Quando eravamo fidanzati spesso veniva allo stadio con me. Più per compiacermi che per un reale desiderio. Sempre per accontentarmi si mostrava interessata e mi chiedeva resoconti sul Napoli. Ricordo che per un lungo periodo trascorrevo ore a insegnarle le formazioni e le elencavo la lunga serie di insuccessi e inculature che la storia del Napoli ci ha regalato.
Prima di sposarci, mi convinse dicendomi: “su dai, saremo una squadra”. Una metafora che mi ha fottuto. Col tempo ho capito che lei giocava, faceva l’allenatore, il direttore sportivo, il ragioniere e il presidente decisionista. Io tutt’oggi sono in socio finanziatore e in campo al massimo sto in panchina
Col matrimonio e l’arrivo della piccola Sara è cambiato tutto: una cosa è far finta di imparare la vita di Vinazzani e Raffaele Sergio per una mezz’ora al giorno, un’altra è stare con un individuo che si interessa solo di calcio e del Napoli. A questo poi si è aggiunto il presunto rincoglionimento del padre, un autentico patito. Da quando è andato in pensione, parla esclusivamente del Napoli. Non esiste altro argomento. Anche per me, che sono monotematico, spesso diventa insostenibile. Quando il Napoli perde, a differenza mia che preferisco rinchiudermi totalmente in me stesso, lui ha bisogno di sfogarsi e così diventa un fiume in piena tra teorie, paradigmi e moduli alternativi. Non oso immaginare come stia oggi che abbiamo appena perso con l’Atalanta. E non oso immaginare i suoi interlocutori in questi giorni. Avrebbe bisogno di una psicologa. Ma non avrei mai il coraggio di consigliarglielo.
Già faccio fatica di mio. Qui, se dovesse sapersi che sono in analisi, mi guarderebbero tutti male e, specie per le persone anziane, è qualcosa di incomprensibile. “Solo i pazzi hanno bisogno di uno strizzacervelli. Se hai qualche problema, perché non ne parli con me? Solo io ti conosco” queste le parole di mia madre quando le raccontai anni fa della mia intenzione di sottopormi ad un supporto psicologico esterno. Che non fosse il suo.
Oggi va così. Devo però dire che qui fuori, stanotte, c’è un’aria davvero rigenerante, anche se riempire questo foglio non mi ha dato alcuna illuminazione: le dita restano gialle, il giallo limoncello scende senza sosta e Peppe ancora sente tremare la sedia. Non ho il contatto con quella parte di me così timida e poco incline al mostrarsi in pubblico, come direbbe quel professore ungherese di cui ho dimenticato il nome (Halmutt?). Domani telefono alla psicologa. Ho solo riscoperto di essere un ribelle, grazie allo smartphone: la penna d’oro del nonno riposta nel cassetto ne è il simbolo. Anche se mio nipote riesce a fare le divisioni con le virgole e senza supporto tecnologico.
Ogni tanto sento sempre quella voce che mi chiama “Peppe Topputo, non ti fermare, non mollare”. Ma non sono riuscito ancora a capire chi sia. Come non ho capito ora a chi sto scrivendo. A Me, a Io, a SuperMario o a SuperIo?
Sì, va così. Non mi sento troppo bene. Secondo mia moglie è solo una questione fisica, secondo la mia psicologa è colpa dell’età che avanza. Io invece ho un’altra idea: il Napoli ha perso con l’Atalanta, non il Bayern, e non si parlerà che di fallimenti e turnover per 2 settimane.
E domenica la beffa: mia moglie mi ha anticipato che saremo a pranzo da suoi genitori. Con sua madre tirchia ed egocentrica che mi rivolgerà la parola solo per denigrarmi e suo padre che, in base a qualche sua fantomatica teoria, spiegherà i motivi della sconfitta di Bergamo.
Un pranzo che, nonostante io abbia problemi di “pigrizia concentrativa” non riuscirò a dimenticare.
Non ho il coraggio di dirlo, ma in cuor mio ho già la diagnosi. Da tre notti dormo poco e male, sogno Chiellini con mia moglie, mi invento terremoti e uragani, domenica c’è il pranzo coi suoceri: la causa del mio stato non può che essere la sosta di campionato. (1 – continua)
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
ilnapolista © riproduzione riservata