Strout parla di senso di protezione e anche di aghi infilati senza guanti. Un altro mondo che lei descrive con grazia.

La notizia non è nuova. È nuova, però, l’intervista a Elizabeth Strout la scrittrice americana che per la prima volta della sua esperienza al Cardarelli dove una decina di giorni fa ha subito un intervento di appendicectomia (ironia della sorte, presente anche nel romanzo Lucy Barton). Oggi Repubblica dedica una pagina alla conversazione tra lei e Leonetta Bentivoglio. Il titolo è, diciamo, enfatico: «Io, salvata da Napoli» con un bel richiamo in prima pagina. Anche una sorta di risarcimento per chi considera – tante volte a ragione – la città bistrattata dai media e che si ritrova proprio in questi giorni sui tg nazionali per l’accoltellamento tra quattordicenni all’uscita di una scuola media del centro storico. Accoltellamento dalle ricadute razziste su cui varrebbe la pena soffermarsi.
Ma torniamo alla Strout. Lei racconta che era a Capri per il premio Malaparte e che si è sentita sempre peggio fino a essere vittima di dolori lancinanti. Comincia così la corsa verso l’ospedale in compagnia di Gabriella Buontempo e Andrea Kerbaker. «Non ricordo quasi nulla. Ero in taxi con mio marito, Andrea e Gabriella, e rammento solo un percorso lungo e pieno di buche. Al pronto soccorso c’era un mucchio di gente, eppure qualcuno mi ha trasferito direttamente dal taxi sopra una barella». Strout confessa di aver pensato che sarebbe morta, non specifica se perché fosse a Napoli o per il malore in sé. Il racconto è pieno di riconoscenza verso la città e i dottori che l’hanno salvata. È ovviamente un racconto che può essere letto con due lenti, anche con la lente di chi si è vista probabilmente perduta e mai avrebbe immaginata di uscirne viva (probabilmente proprio perché a Napoli, almeno questa è l’impressione che ho avuto leggendo l’intervista).
Il premio Pulitzer per la narrativa si sofferma sulla differenza tra gli ospedali di New York e quelli di Napoli e anche qui le dichiarazioni possono essere lette in due modi. Se negli ospedali di Nyc gli infermieri sono stressati perché vanno avanti e indietro, vuole dire che qui a Napoli Elizabeth Strout ne ha apprezzato la flemma che le ha restituito un senso di protezione.
In un ospedale newyorchese c’è un sacco di gente ovunque, i corridoi sono affollati e gli infermieri sono stressati perché hanno troppo lavoro. Non esiste il senso di accoglienza che ho percepito qui. Da un punto di vista sanitario, l’unica cosa che ho notato a Napoli è che non tutti gli infermieri hanno i guanti quando introducono gli aghi nelle vene. Negli Stati Uniti un’infermiera verrebbe licenziata se non li indossasse. Comunque la mia stanza era pulitissima. E sul piano umano i napoletani vincono di gran lunga sugli americani. A New York l’ospedale significa angoscia; a Napoli rappresenta protezione.
Ovviamente Strout conosceva Napoli solo grazie a Elena Ferrante. Resta la domanda – retorica – del perché faccia notizia uscire vivi da un ospedale a Napoli (è capitato anche a Roma con Amartya Sen la cui moglie fu ricoverata d’urgenza) e una sensazione – senza polemica, davvero senza polemica – di fisiologico pittoresco nelle parole della scrittrice americana che ha scoperto un’altra dimensione – tra strade con le buche e aghi infilati senza guanti – che a suo modo sa essere ugualmente efficace.