Uno sguardo indietro, ai tempi di Antonio Ravel e di Tutto il calcio minuto per minuto. E un dialogo con un cronista di oggi, sul modo di raccontare lo sport.
Tutto il calcio minuto per minuto
Se chiedessi a mio padre Agostino, ottantacinquenne, di fischiettarmi il motivetto di “A taste of Honey” nella versione strumentale del 1965 suonata dagli Herb Alpert’s Tijuana Brass, sicuramente non mi risponderebbe.
Se invece la domanda la ponessi diversamente invitandolo a canticchiare il motivetto della sigla della popolare trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto” allora, nonostante la logica lentezza mentale di un vecchietto, reagirebbe con immediatezza.
Il calcio, solo alla domenica, in radio
Ma i ricordi di mio padre di “quel” mondo del calcio non sono solo musicali. Sono legati ad esempio alla scansione percettiva dei giorni della settimana. Per lui ” ‘a partita do’ Napule” è associata ancora alla domenica, unico giorno festivo che giustificava la “distrazione” per la sua (e nostra) grande passione. Oggi fa ancora tanta fatica a metabolizzare, spesso considerandoli scherzi, i miei inviti a vedersi la partita il venerdì e il sabato. Per non parlarvi poi della impossibilità di far accendere la radio il lunedì.
Non è un errore di battitura: radio, non televisore perché mio padre non ha Sky o Premium e la partita immagina di vederla, abituato da circa un secolo, attraverso le onde radio. Mio padre è stato per oltre 50 anni tifoso “abbonato settore distinti” ma credo che le più belle partite le abbia viste alla radio. Dove si incontravano le voci dei migliori giornalisti italiani che avevano la capacità, come i grandi romanzieri, di farti chiudere gli occhi, ascoltarli e… vedere le partite.
Le voci
Quelle voci avevano solo dei nomi che non riuscivi, almeno fino agli anni Ottanta, ad associare ad un volto. Uno di questi è stato Antonio Ravel (Napoli 1923 – 1999), già direttore de Il Giornale (una testata dell’epoca) e caporedattore del Tg Rai regionale, inviato di “Tutto il calcio minuto per minuto” per le partite interne di Napoli e poi Avellino. Un giornalista che odiava i luoghi comuni e le frasi fatte – oggi in voga più che mai -, e che utilizzava un linguaggio sobrio e ironico ma senza nessuna concessione al folclore. Elegante nell’abbigliamento e nella professione. Proprio l’eleganza oggi è una caratteristica chimera tra i radiocronisti/telecronisti.
Oggi Antonio Ravel si scandalizzerebbe ad ascoltare i suoi epigoni commentare le partite “urlando” a mozzafiato come donne nel momento del parto. Cercano di imitare i commentatori ispanici che, da sempre (quindi per tradizione e non per innovazione), continuano ad avere lo stesso stile enfatico ma soprattutto hanno costruito uno stile di comunicazione con l’intento di indirizzarsi verso un pubblico interessato ad una sola versione dei fatti e alla parzialità. Una generazione di giornalisti che ha l’obiettivo, sicuramente su richiesta del pubblico, di non costruire lo spirito critico ma semmai di demolirlo.
Le voci, oggi
Ma perché si è avuta questa metamorfosi? Antonio Ravel lo chiede a un giovane giornalista-tifoso di nome Carlo che cura la radiocronaca del Napoli per conto di una emittente privata. E lo facciamo con il nostro solito fantasioso viaggio, un immaginifico sguardo sul presente con gli occhi del passato, una fantasticheria quindicinale in cui un personaggio, forse dimenticato, del calcio in bianco e nero diventa protagonista del football odierno.
Un appuntamento solo per psicopatici cronici, ma forse anche il tentativo di “interpretare” certe dinamiche esasperate della nostra amata passione con lo stato mentale di chi aveva meno pressioni mediatiche per presentarsi necessariamente come “diverso”. Una occasione per tradurre gli integralismi degli ultimi 30 anni di calcio con la tranquillità intellettiva di un mondo molto più lento.
Il dialogo
Antonio: «Caro Carlo, innanzitutto complimenti perché i giornalisti sportivi della vostra generazione hanno molte qualità che noi non avevamo. Sono più preparati, mediamente più istruiti, parlano inglese e maneggiano benissimo le nuove tecnologie. Ma mi chiedo: si può scrivere o raccontare il calcio in un mondo ormai diviso in chiese? Se scrivi o dici quello che pensi offendi quei tifosi per cui o sei a favore o sei un nemico un malafede. Fammi capire».
Carlo: «Carissimo Antonio ti devo purtroppo dire che è un problema della omologazione della professione. Anche in passato qualche eccesso c’è stato (ricordo il famoso e simpaticissimo “Milano chiama, Napoli risponde” del tuo collega Luigi Necco), solo che oggi l’urlo ha cancellato sistematicamente la parola, l’iperbole la normalità, la faziosità il ragionamento. La regola oggi (anche delle redazioni) stabilisce che è bravo il giornalista che scrive ciò che esattamente pensano i tifosi, altrimenti ti etichettano come incompetente o prezzolato. Quando hai un diverso parere sei mal visto».
Antonio: «…però avete meno curiosità. Tendete a fare il compitino e a non avere problemi. C’è più appiattimento o sbaglio?».
Carlo: «Effettivamente c’è un andazzo da “tutti in gruppo”, con i vantaggi e gli svantaggi che ne conseguono. Si rischia poco per paura di compromettersi e restare isolati. Oggi la televisione ci ha costretti ad adeguarci al “già visto”».
Antonio: «E così confermate il giudizio di chi oggi vi ascolta solo per capire se… avete capito! Se la vostra partita è uguale alla loro. Quindi se volete resistere alla invasione della tv dovete alzare il livello della scrittura e/o della sceneggiatura della radiocronaca. Vi è rimasto un solo piccolo ma suggestivo vantaggio: chi vede la partita in tv non si interessa del telecronista e della sua voce ma del fatto (cioè la partita); chi sceglie la radio invece lo fa per sentire soprattutto una voce, una narrazione. Sceglie la testa, non il fatto. Cercate di dire cose meno scontate ma soprattutto opponetevi alle cose ovvie dette dagli esponenti del mondo del calcio».
Carlo: «Un ultimo consiglio?»
Antonio: «Ricordati che il giornalista deve essere prestigioso e credibile, non popolare».