L’autobiografia di Cruyff si rivela deludente, soprattutto per lo spazio dedicato alle liti in seno al Barcellona e all’Ajax. Un testo che non rende giustizia al 14 del calcio.
Quando qualche mese fa si diffuse la notizia sull’uscita dell’autobiografia di Johan Cruyff , mi sarei aspettato un libro all’altezza del giocatore olandese – quasi sicuramente, dopo Maradona, il giocatore più forte e geniale di tutti i tempi. L’elegante ed accattivante copertina Bompiani faceva propendere in questa direzione. Al termine della lettura, di quell’entusiasmo iniziale, non c’è più traccia. Ha lasciato spazio ad un misto di delusione e disincanto su cui ho brevemente riflettuto, sfogliando a ritroso le pagine del testo. Non soddisfatto, ho provato così a cercare recensioni al libro e mi sono imbattuto nel pezzo di Simon Kuper sul Financial Times intitolato “Vecchi rancori: il messaggio nella memoria di Johan Cruyff”, un articolo senza sconti che non si limita ad un semplice racconto dei fatti, a differenza invece di Gianni Mura su “La Repubblica”, ma mette in luce contraddizioni ed incongruenze, il libro è in effetti «un’occasione mancata di lasciare un monumento scritto. Cruyff meritava molto di meglio».
Cruyff ha dipinto la Cappella Sistina
Già, perché come sostenuto da Guardiola «Cruyff ha dipinto la cappella Sistina. Rijkaard, van Gaal ed io abbiamo soltanto aggiunto qualche pennellata». Un pittore, un architetto, sempre più interessato al metodo «alla matematica del gioco, l’analisi, i modi di migliorare». Uno studioso del pallone e delle traiettorie imperscrutabili del calcio. Un ragazzo che, in assenza di titoli di studio, «tutto ciò che sa, l’ha appresa dall’esperienza». Dalla passione per i numeri e la numerologia, alla rapidità nei calcoli acquisita nel negozio di frutta e verdura di famiglia – «quando i miei genitori non c’erano toccava a me servire clienti, ma poiché ero ancora troppo piccolo non arrivavo al registratore di cassa. Fu così che imparai a fare i calcoli a mente» – , fino agli insegnamenti del baseball – praticato a buoni livelli durante la pausa estiva del De Meer – come lo sguardo globale ed il pensare in anticipo.
I quattordici tocchi
Cruyff si sofferma su molti dettagli ed aspetti significativi della sua straordinaria vita. Ad iniziare dalla figura di Rinus Michels, l’allenatore che ha lasciato un segno indelebile nel modo d’intendere di calcio da parte di Cruyff, come «l’idea che difendere consista nel concedere il minor tempo possibile agli avversari, o che gli spazzi si debbano allargare in fase di possesso palla e restringere in fase di non-possesso, perché nel calcio ogni cosa è una funzione della distanza». Oppure sulla finta contro la Svezia, la Cruyff turn, mai provata in allenamento, un’idea improvvisa, «nata semplicemente perché in quel momento era la migliore soluzione per la situazione in cui mi trovavo». O ancora la finale mondiale contro la Germania nel 1974 persa per le troppe occasioni sprecate. Le recriminazioni. Il miracoloso Sepp Maier. I cinquantaquattro secondi di possesso e quattordici tocchi che consegnarono l’Arancia Meccanica alla storia. Uno dei rari in cui si parla più dei vinti che dei vincitori.
Argentina 78
Pagine importanti sono dedicate al mondiale del 1978 in Argentina. Cruyff chiarisce come la sua decisione di non parteciparvi fu unicamente legata all’assenza di concentrazione e di serenità, a causa di un recente tentativo di sequestro – per fortuna poi sventato – ai danni della sua famiglia. Seguì da telecronista e commentato quell’evento. Quando l’Olanda perse la finale per la seconda volta consecutiva, s’iniziò a domandare se avesse potuto vincerla con lui in campo. «Sinceramente penso di sì, perché in quel momento le mie qualità sarebbero state un valore aggiunto».
L’involuzione del libro
Il libro in questa prima parte appariva godibile e scorrevole. Ma nel momento in cui Cruyff inizia a raccontare in dettaglio del suo rapporto con l’Ajax ed il Barcellona, i contrasti con le rispettive dirigenze – in particolare quella ajacita – il testo subisce una forte involuzione. E diventa noioso e prolisso. Non ci è dato sapere se il demerito sia del ghostwriter di Cruyff, il giornalista del Telegraaf, Jaap de Groot. Oppure della testardaggine del “Profeta del gol” nell’indugiare su guerre di potere, da cui spesso è uscito perdente. Sicuramente il fil rouge è l’incredibile sofferenza di Cruyff per non essere riuscito a completare – principalmente a causa di gelosie, veti contrapposti, incapacità e dilettantismo dirigenziale – il processo di riorganizzazione in seno all’Ajax, la sua vera “famiglia”. Al Barça invece, nonostante Rosell, è stato in grado grazie alle sue intuizioni ed idee rivoluzionarie a trasformare un «club con parecchio denaro, pochi trofei e gioco insipido […] in una squadra vincente, con una forte identità ed uno stile inconfondibile».
È forse il destino degli innovatori, idealisti e filosofi con i loro metodi, principi e regole – ovviamente nel caso di Cruyff sono 14 – ovvero, non rendersi conto di essere ingombranti e di suscitare invidie. Forse questo però all’olandese, con tutto il portato doloroso, appare chiaro. Infatti in chiusura del libro scrive: «nel corso degli anni non tutti mi hanno capito. Da calciatore, da allenatore ed anche in seguito. Ma non fa niente. Nemmeno Rembrandt e Van Gogh furono compresi. La lezione è questa: ti prendono per pazzo finché non diventi un genio». O rivalutarti e rimpiangerti una volta passato a miglior vita.