Uno dei due fondatori del Napolista augura buon compleanno al sito e ripercorre il “senso” del calcio in una città come Napoli.
La fortuna della trasferta
A differenza di Max, ho ancora la fortuna di “vedere” la nostra creatura, il Napolista, da Roma. Dico fortuna perché talvolta avverto la solitudine di Max e di tutto il Napolista nell’analisi lucidamente razionale e spesso acuta delle vicende azzurre. E non mi riferisco ai quattro gatti haters che tampinano ogni firma del sito, in netta minoranza rispetto alla maggioranza silenziosa che segue e legge con compita attenzione; quanto piuttosto alla sempre più scadente qualità del dibattito cultural-sportivo a Napoli, a sette anni dalla fondazione del Napolista.
Il sito nacque, non lo dimentico mai, contemplando il “deserto” delle conferenze post-partita della nostra squadra, deprimenti e povere. Da allora il problema dei vari protagonisti del palcoscenico mediatico è sempre lo stesso: ossia azzeccare la formazione che scende in campo (Mancini dixit). Non solo. La situazione è persino peggiorata perché la sequenza di secondi e terzi posti ha garantito una ribalta nazionale al folklore orizzontale (cioè che galleggia in superficie, grondando banalità) di telecronisti Pulcinella o scrittori di pancia pronti a invocare la pugna contro la società del Pappone.
Il senso dell’internazionalizzazione
Eppure, il calcio a Napoli non è affare secondario. Anzi. Ma in sette anni di stimoli napolisti sono stati rari i sussulti della stampa locale (che conta uno storico quotidiano regionale e le edizioni locali delle due più grandi testate nazionali), come quando andò via Mazzarri e sul Corriere del Mezzogiorno fu stilato un manifesto illuminista contro la sua partenza. Perché il nodo, inutile girarci attorno, è lo stesso da decenni: costruire, impiantare, alimentare, scegliete pure voi il verbo, una normale mentalità vincente, senza aggiungere melense zavorre extracalcistiche tipo il riscatto sociale di una popolazione arrabbiata e rassegnata (purtroppo anche il marxista Sarri è caduto in questa trappola).
Ecco, almeno per me, il Napolista è questo: non credere alla balla che uno scudetto vinto a Napoli o Roma ne valga dieci se non venti vinti a Milano o Torino. Non a caso Max e il Napolista sono stati e sono ancora rafaeliti. Il rafaelismo era l’idea di vincere con un progetto di internazionalizzazione senza connotati geografici. Una vera eresia in una città adusa ad ammirare estasiata il proprio ombelico, senza considerare il resto del mondo, e per vocazione più incline al populismo autoconsolatorio che al gradualismo riformista.
La forza del Napolista
Da questo punto di vista ideologico anche il mio rafaelismo è stato incondizionato (un po’ meno sotto l’aspetto tecnico): è lo scetticismo per i Masaniello calcistici di ogni epoca, come disse con isolato coraggio Luigi Compagnone buonanima nell’anno del primo scudetto. Vincere un campionato non conduce al revisionismo borbonico o sudista e neppure sconfigge il traffico, i cumuli di munnezza e più in generale la corruzione politica. Così, come al contrario, i rigori a favore del nord non implicano il vittimismo atavico che risale all’unità d’Italia.
Il Napolista festeggia sette anni e mi rendo conto di essermi dedicato al classico bicchiere mezzo vuoto. Ma i bilanci sono così. A me resta, da tifoso e anche da giornalista, la curiosità di aprire il sito ogni mattina. Non è una cosa da poco: la curiosità è merce preziosa in un sistema caotico ma spesso scontato. La curiosità di chi decide cosa mettere in pagina, la curiosità di chi legge. E questa è la forza di Max e del Napolista e della sua comunità. E poi oggi chi può avere il coraggio a Napoli di seminare qualche dubbio sulla nuova religione del sarrismo? Solo il Napolista. Lo dico con orgoglio e timore. Auguri a tutti. In particolare a Max, Francesca e alla mia compagna di pagelle, Ilaria.