Analisi sullo stadio San Paolo e sul rapporto con il Napoli: è è uno stadio normale? Ha ancora un senso definirlo come uno ambiente “unico” o “speciale”?
«Una curva come un’altra»
Dicembre 2015: siamo nel bel mezzo del momento migliore della prima stagione di Maurizio Sarri a Napoli. Il cartaceo di Rivista Undici esce con il numero 7, Jovetic in copertina ed all’interno un pezzo a firma di Tim Small sul guardare una partita in curva al San Paolo. Il motivo per cui torno a parlare di quel pezzo dopo così tanto tempo è che l’ho letto con molta avidità e l’ho trovato, in un certo senso, fastidioso. Mi aspettavo che il fastidio cominciasse a montare tra i lettori napoletani come è montato dentro di me, che arrivasse a scatenare una discussione, da qualche parte, in qualsiasi posto. Questa discussione non è mai cominciata, sono passati ormai quas due anni. Due anni sono abbastanza per fare in modo che il fastidio sedimenti, sono anche sufficienti perché una discussione passi dall’essere importante all’essere necessaria.
L’articolo di cui parlo si apre con Tim Small che riporta le impressioni sull’esperienza vissuta insieme ad un amico napoletano, scrivendo del San Paolo come di uno stadio con: «Bei canti, molto calore ma al 99% una curva come un’altra» Mi concedo qualche secondo per permettervi di esplorare la sensazione che state vivendo in questo momento, davanti a questa frase. Mi metto anche a fare un gioco un po’ scorretto, un po’ rischioso e provo ad indovinare: siete anche voi all’interno del larghissimo spettro che è la sensazione di essere infastiditi.
Per essere onesti l’articolo è poi molto lungo, prende un’altra direzione, mitiga la posizione iniziale e sostanzialmente quel fastidio affievolisce. Io invece vorrei dimenticare per un attimo il resto del pezzo e restare su questa frase qui, fare finta che non ci sia nient’altro intorno. Vorrei che ci mettessimo a vivere per bene questo fastidio, una volta per tutte, e cominciassimo a discuterne, seguendo tre tracce.
Prima: perché questa frase, da napoletani, ci infastidisce?
Seconda: il San Paolo è davvero uno stadio come un altro?
Terza: perpetrare il mito di un San Paolo speciale ci fa bene o male?
Prima traccia
Ho riflettuto tanto sul motivo per cui quella frase mi infastidisce così. Il problema è: non c’è nienteche può infastidire un napoletano più che privarlo del suo senso identitario, della sua unicità, vera o presunta che sia. Sono abbastanza convinto che se il pezzo di Tim Small si fosse aperto con una generica accusa contro lo stato d’abbandono dell’impianto non ne sarei stato per niente innervosito. Invece dire che quella del San Paolo è una curva come qualsiasi altra colpisce nel tratto più controverso della mia napoletanità: la voglia di sentirmi speciale, unico, incomprensibile ai più.
Faccio il giro di giostra al contrario: quale è il pezzo di letteratura che più mi rende orgoglioso di questa squadra? La risposta è banale, ho la presunzione anche di crederla condivisibile: amo l’intervista a Yaya Touré in cui il centrocampista parla della sua partita giocata al San Paolo. L’intervista è così celebre che posso evitare di riportarla interamente, mi soffermerò sul mio momento preferito:
“La mattina andammo a fare riscaldamento al San Paolo, Tevez mi parlava di questo stadio, ma io che ho giocato nel Barca mi dicevo, che sara mai! Eppure quando misi piede in campo sentii qualcosa di magico, diverso”
Questa, se ci pensate, è esattamente l’altra faccia della frase di Tim Small: un forestiero arriva al San Paolo e ne esce stupefatto per la sua diversità. In fondo quest’intervista mi inorgoglisce perché conferma l’idea autocostruita che io, da napoletano e tifoso del Napoli, sia diverso o speciale. Si tratta di un’idea affascinante, bellissima, sicuramente molto letteraria ma a tratti pericolosa perché mi permette di giustificare ogni situazione problematica col mantra dell’incomprensibilità. Mi spiego: non è vero che la curva del Napoli è come qualsiasi altra, è Tim Small che non l’ha compresa.
In tutta onestà credo che Tim Small abbia compreso benissimo la curva del San Paolo e che sia stato Yaya Touré a dipingerla in toni esagerati, complice il fatto di averla vissuta durante un’occasione particolare. Il punto è che tendiamo a dare più valore all’affermazione del centrocampista del Manchester City perché aderisce perfettamente alla narrazione che ci siamo (ci hanno?) costruiti addosso: quella di una curva e di una città che vuole a tutti i costi essere unica e fieramente incomprensibile, anche quando non lo è o non sarebbe necessario esserlo. Qualsiasi voce che si allontana da questa idea viene derubricata a semplice flame.
Davvero, provate a fare questo esperimento: cercate su Google degli aforismi su Napoli e tenete conto di quante volte ritorna il concetto dell’incomprensibilità. Eppure allontanarci da questo tipo di narrazione (che viene perpetrata anche dai media mainstream: notate quanti telecronisti definiscono speciale l’atmosfera al San Paolo anche quando non lo è) servirebbe a correggere la lente attraverso cui guardiamo il nostro stadio. Accettare che no, per questa volta non siamo incomprensibili ma semplicemente normali, potrebbe essere una grande occasione di crescita per la squadra e, incidentalmente, per la città intera.
Seconda traccia
Ma perché insisto con l’idea che effettivamente quella del Napoli sia una curva normale? Ad esempio: ho già accennato, nel mio pezzo precedente qui su Il Napolista, alla nostra proposta musicale blandamente generica e allineata a quella delle altre curve d’Italia. Questa mi sembra una questione che andrebbe approfondita e meriterebbe forse un’analisi tutta sua, ma provo a sintetizzarla: cantiamo cose che non ci appartengono e siamo pigri nella scelta del bagaglio culturale da mettere in mostra. Le coreografie mi sembrano ugualmente ammantate della stessa pigrizia: rare, inspiegabili e inadatte, per temi ed esecuzione, all’identificazione collettiva. Abbiamo difficoltà a vestire e mettere in mostra i colori della squadra che invece raccontiamo come indissolubile rispetto al suo pubblico.
Non siamo neanche lontanamente paragonabili a qualsiasi stadio veramente latino (penso a certe scene del calcio sudamericano, per esempio) per passione e atmosfera. Il colpo d’occhio è effettivamente stupefacente solo poche volte nell’arco di una stagione. Potrei continuare per ore e l’esercizio non sarebbe neanche così complicato. In realtà l’esercizio complesso mi pare piuttosto quello inverso: trovare dei punti in cui riusciamo a distinguerci visibilmente dagli altri. Dobbiamo ridurre forse tutta la nostra epica alla trovata (mirabilissima) dell’urlo all’inizio delle partite di Champion’s?
L’urlo Champions prima di Napoli-Real Madrid (dal canale Youtube di Napolimagazine)
Terza traccia
Se ci pensate il giornalismo, in particolare quello sportivo, è pienissimo di queste semplificazioni narrative: raccontare del fantastico colpo d’occhio è un incipit troppo ghiotto per qualsiasi cronista al San Paolo. Raccontare dell’atmosfera infuocata, di quanto essa possa influire sul match, è una semplificazione troppo comoda per il cronista sportivo che non ha in mano gli strumenti per effettuare una vera analisi tattica o tecnica della partita, è anche un ottimo modo per mettere in mostra quella piaggeria che, volente o nolente, attecchisce con facilità sulla piazza.
L’impressione è che, parlando della specialità del San Paolo, stiamo perpetrando un meme che, come tutti i meme, è una semplificazione della realtà, al massimo una sua parodia, è uno strumento che utilizziamo per incasellarla in schemi che confermino le nostre convinzioni, ed è anche un’operazione molto sexy da mettere in atto. Perché semplifica e racconta una realtà, una realtà che poi non esiste ma che ci piace credere esista.
Contemporaneamente il meme è però anche una trappola retorica che ci impedisce di guardare con sensibilità alla situazione corrente: necessitiamo urgentemente di un nuovo stadio e siamo ancora impelagati (come opinione pubblica) nella costruzione forzata di un mito che, ci piaccia o no, dovrebbe essere già nella sua fase decostruttiva. Paradossalmente porre fine alla costruzione mitologica dell’impianto di Fuorigrotta sarebbe la prima pietra da innalzare per la costruzione del nuovo stadio. Prima di discutere del luogo, dei tempi o della grandezza del nuovo impianto dovremmo decidere cosa fare del San Paolo. E la decisione sarebbe più semplice se potessimo guardare al San Paolo per quello che è, con onestà. Semplicemente: non (più) un posto speciale.
Ghost Track
Maggio 2015: siamo nel bel mezzo del miglior momento dell’ultima stagione di Rafa Benitez a Napoli. Sta per cominciare la semifinale d’andata di Europa League al San Paolo, io sono allo stadio e quindi non posso esserne certo ma con buona probabilità i telecronisti stanno parlando di atmosfera eccezionale. Contemporaneamente la curva B espone una coreografia enorme e di
pessimo gusto estetico che impedisce, di fatto, la visione dei primi dieci minuti del match a svariate migliaia di persone.
La coreografia, che avrebbe l’unico problema di essere inspiegabile per soggetto ed esecuzione tecnica, acquisisce l’aggravante di essere molesta. Dietro di me un ragazzo tedesco di Dortmund (ho potuto stringerci amicizia nel lunghissimo prepartita) sta conversando con il suo accompagnatore napoletano che gli chiede se si sente impressionato da quell’atmosfera eccezionale. Lui è coperto da un lenzuolo enorme, la gente intorno urla, litiga e non può accorgersi che la partita è già cominciata. Il ragazzo di Dortmund guarda il suo amico e non risponde. Mi avventuro nel territorio pericoloso dell’interpretazione: no, il ragazzo non è impressionato.