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Napoli, la Napoletanità rivisitata e l’auspicio di una nuova rivoluzione narrativa

I nuovi messaggi narrativi di Napoli (da LIBERATO in poi) e la nuova oleografia di una città caratterizzata dall’immobilismo della Natura.

Napoli, la Napoletanità rivisitata e l’auspicio di una nuova rivoluzione narrativa

Leggendo gli articoli del Napolista su LIBERATO e sul tipo di narrazione coinvolta per rappresentare Napoli (e il Napoli), mi sono venute in mente subito alcune classiche categorie. La prima è una proprietà – come dire? – senz’altro particolare, per non dire unica: la Napoletanità. Parto da un luogo classico, la Storia di Napoli di Antonio Ghirelli, che individua nella “nazione napoletana” la detentrice di “particolari valori, di un preciso patrimonio culturale e di un determinato sistema di relazioni collettive e individuali”.

Pietà umana

La categoria della Napoletanità consiste in “un’antica rassegnazione, un rifiuto alla lotta, un consenso alla rissa, al cicaleccio, al grido sterile. Una pietà non religiosa ma umana, quindi capricciosa e soggetta al gioco degli umori e delle circostanze. Una socialità che è complicità nella trasgressione, non certamente civismo e difesa di patrimonio comunale. Un’indifferenza alla natura e un continuo inno ad essa carne matrice di ozio divagante”.

Questa definizione, certamente molto critica e purtroppo ancora attuale, è stata lentamente rivisitata, e per molti versi ribaltata negli ultimi decenni, affermando invece una visione quasi mitica della Napoletanità e dei napoletani che la detengono, considerati a tutti gli effetti non solo un popolo (“lei è italiano? No, napoletano”, risponde Peppino nel film “Totò e Peppino divisi a Berlino”, risposta impiegata più volte nel corso degli anni, da Sofia Loren a Bud Spencer), ma un popolo unico, straordinario (“essere napoletani è meraviglioso” è la scritta che campeggia in diversi angoli della città). Questo intervento è appunto sulla Napoletanità Rivisitata e su come alcuni prodotti – come il video di LIBERATO – l’alimentano.

Napoletanità, nel tempo

Mi preme però chiarire subito un aspetto della questione. Reputo la definizione di Ghirelli magistrale se presa nel verso giusto – quella del resto suggerita dal contesto di una narrazione storica. Guai a trasformare categorie letterarie o storiche-descrittive come questa in categorie esplicative politiche o morali (ci arriveremo): anche per mestiere, reputo che non ci si debba affidare a certe riflessioni labili che immettono categorie sociologiche, teoricamente pericolose, che sembrano essere introdotte più per giustificare l’esistenza di certe discipline che per spiegare qualcosa.

Ad esempio, esiste l’immaginario collettivo, inteso come un insieme di simboli e rappresentazioni presenti in una certa comunità? E se esiste, come individuare quello specifico immaginario collettivo che alimenta ed è a sua volta alimentato dalla Napoletanità e isolarne le peculiari forme narrative? E come cambia questa Napoletanità nel tempo? La Napoletanità espressa negli anni ‘60 è diversa dalla Napoletanità degli anni ‘90? Un filosofo americano contemporaneo – che tra l’altro cita Napoli in uno dei suoi saggi più famosi – si interroga sul senso di parlare di entità di cui non si può dire che siano identiche a sé stesse e distinte l’una dall’altra.

Un massacro di Napoli

Se dunque bisogna maneggiare con cura categorie come queste, allo stesso tempo l’analisi dei testi – in un’accezione ampia che comprende libri, film, musica, videoclip ecc. – è indispensabile per descrivere certi fenomeni legati alla rappresentazione di un’identità. Una rappresentazione che perde spesso la sua caratteristica (per definizione) astratta per trasformarsi in qualcosa di reale: è il caso, ad esempio, delle proteste vibranti che scattano ogni qual volta si mettono in discussione certi punti fondamentali della Napoletanità Rivisitata.

Ecco che Saviano e tutto il racconto di Gomorra vengono tacciati di massacrare Napoli perché descrivono solo il male e le vicende legate alla violenza. È singolare che, in nome della Napoletanità e dell’immaginario collettivo che lo alimenta, ci si agiti tanto concretamente e furiosamente. In altri termini, è singolare che in nome di certe categorie discutibili (che appartengono ai bassifondi ontologici, direbbe sempre il filosofo di prima) si faccia più chiasso rispetto invece a eventi che – questi sì – concretamente e furiosamente massacrano quello che è rimasto a Napoli di Napoli.

Autorappresentazione

Fatte queste premesse, per così dire, metodologiche, non c’è dubbio che alcune rappresentazioni di Napoli possono aiutare a comprendere le costruzioni narrative delle molteplici e spesso irriducibili identità napoletane. Il video di LIBERATO (TU T’E SCURDAT’ ‘E ME) n’è un esempio importante, perché sembra non tanto e non solo fotografare lo stato dell’arte della Napoletanità e dell’oleografia moderna su Napoli, catturate benissimo dalle riflessioni di Alfonso Fasano in un precedente articolo sul Napolista («LIBERATO è fare le cose bene, a Napoli, oggi. Anche creando una nuova oleografia, magari. Ma intanto faccio qualcosa di nuovo, senza ristagni. Interpretando il presente. Con un prodotto esteticamente valido, ricercato. Pure commerciale, e VAFFANCULO ai benpensanti»).

Ma perché, nella narrazione su Napoli, il prodotto LIBERATO (canzone e videoclip) sembra restituire soprattutto un passaggio fondamentale nell’autorappresentazione della propria identità, un momento in cui Napoli è in bilico tra essere (ancora!) Natura incontaminata e fare l’ingresso (finalmente) nella Storia.

NOVE MAGGIO

L’oleografia napoletana (quella vecchia combattuta da Senese, Daniele, Troisi) e quella moderna, esemplificata appunto dal video di LIBERATO hanno come categoria-contenitore il concetto di Natura. È impossibile fare un resoconto puntuale di questa categoria, anche solamente connessa a Napoli. Per venirne a capo in questa righe, mi affido alle parole di La Capria: “viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”.

La Bella Giornata

Così, nel suo capolavoro Ferito a morte, l’autore individua nel rapporto viscerale e consustianziale dei suoi personaggi con Napoli l’esempio migliore per comprendere la fine dell’illusione di essere eternamente nella Foresta Vergine (“La Foresta Vergine che cresce senza senso insensatamente avviluppando vita e pensieri, tra degenerazioni ed inestricabili contorcimenti.”), in una città fuori dalla Storia. La condizione della Natura (e l’urgenza di entrare nella Storia) è ben descritta dall’incipit del romanzo: disteso sul letto (“Con le braccia incrociate dietro la testa”), Massimo è nel dormiveglia in una mattina di estate splendente, la Bella Giornata.

Tutto è sfumato tra sonno e realtà, le onde del mare luccicante di Posillipo si fanno sentire anche tramite la luce (“il grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete”): non si è ancora del tutto svegli né del tutto addormentati. Una condizione di sospensione, appunto. Se la Natura non apre la porta alla Storia, l’unico modo per salvarsi dalla Natura che rende tutto indifferenziato è fuggire in una città senza Vesuvio.

Così il narratore incarnato nel personaggio Massimo si immagina in un’altra città:  “Con le braccia incrociate dietro la testa, a guardare il grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete, a pensare ai miei passi stasera nel rispettabile squallore di strade sconosciute, in una città senza Vesuvio e senza estati, dove i palazzi non finiscono sotto il mare, L’occhio affiorante dalla Foresta Vergine non ti minaccia nella tua integrità, e la Natura o una bella giornata non vince la Storia — col tempo regolato dall’orologio e dalla busta paga.”

Pasolini ed Elena Ferrante

Pasolini è ancora più chiaro. I napoletani sono come la tribù dei Tuareg: anziché vivere nel deserto o nella savana, vivono nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso di estinguersi, “rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamano la storia, o altrimenti la modernità”, “una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare”. Pasolini riconosce che questa negazione dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma allo stesso tempo si afferma una “consolazione quasi morale”, perché questo rifiuto “è giusto, è sacrosanto”.  “Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno. Quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati)”.

I napoletani avrebbero colto, prima di chiunque altro, la consapevolezza dell’assurdità della Storia e delle sue nefaste articolazioni e conseguenze, “un incubo pieno di ferocia e di morte”. Elena Ferrante coglie questo aspetto nell’Amica Geniale: “Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte.”

Superiorità

C’è un punto però da affrontare senza indugi, dato che non è cosa da poco rifiutare la Storia: bisogna giustificare questo rifiuto. Anche perché è in nome di questo rifiuto che il napoletano può continuare, riprendendo ancora Pasolini, “a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere”.

La giustificazione di questo rifiuto, presumo, è semplice: la Napoletanità Rivisitata si accompagna – soprattutto in una certa pubblicistica – come consapevolezza di una necessaria superiorità culturale (siamo la città di Vico e Filangieri) ed estetica (siamo la città più bella del mondo) che diventa a volte persino superiorità politica e morale (quando eravamo capitale del regno!) che appunto può permettersi di percepirsi come Natura incontaminata e non come un’articolazione (spesso tragica) della Storia, con tutte le conseguenze e la fatica di essere nella Storia.

I nostri errori

Ci sono diversi errori in questo ragionamento, a partire dalle stesse premesse ovviamente, imputabile soprattutto alla classe dirigenziale e intellettuale di questa città (ma qui mi fermo perché il discorso si farebbe molto lungo). Per fare un esempio anche un po’ leggero, molte donne belle reputano che la loro bellezza sia in qualche misura una loro caratteristica necessaria, in altri termini pensano: non poteva non essere che così. Anzi, di più. Non solo non poteva essere che così, in cuor loro questa consapevolezza è accompagnata, in uno scatto veemente, da un gesto morale: è giusto così! Mi merito questa bellezza!

Alcuni napoletani ragionano nello stesso modo: Napoli non può che essere una città straordinaria e superiore a tutte le altre; e – pur non avendo fatto assolutamente nulla, se non nascere in questa terra – pensano di meritarsi la sua bellezza e la sua indiscussa cultura, addirittura pretendono di farne parte e di esserne partecipi. Pensano di essere speciali solo perché appartengono a una città considerata speciale. L’immobilismo è la diretta conseguenza di questa superiorità, la superiorità è l’alibi per non entrare nella Storia.

(E quindi lode al merito al movimento Sarrismo – Gioia e Rivoluzione che attraverso differenti tipologie rappresentazionali non solo è agli antipodi di questa rappresentazione ma auspica il cambiamento dialettico della Storia affidandosi a un grande portatore di valori, Maurizio Sarri. La bellezza e la gioia non sono necessarie e non hanno nulla a che fare con la Natura, ma vanno costruite con laica fatica solo all’interno della Storia).

I luoghi del realismo

L’immobilismo della Natura è presente nel video e nella canzone di LIBERATO: i luoghi cantati e mostrati, innanzitutto, che sono in alcuni casi anche i luoghi della Foresta Vergine narrati da La Capria. Al di là del tema universale dell’amore e della sofferenza, i luoghi (Mergellina, Marechiaro, Trentaremi) sono narrati come categorie dell’anima in una giovinezza senza tempo e appunto senza Storia: non c’è generazione di napoletani che non sia passata da quei luoghi e non si sia immersa nel profumo dell’aria fresca di Mergellina all’alba.

L’oleografia antica si mescola con quella moderna, l’intuizione narrativa di far incontrare un ragazzo di piazza Mercato, ossia di una zona popolare (se ha ancora un senso questo termine) con una ragazzina di estrazione alto borghese è efficace, quasi vitale per la Napoletanità Rivisitata, ma per questo poco realistica.

Efficace perché si fa entrare nella Foresta Vergine i motivi e gli stilemi delle identità “popolari” (se ha ancora un senso questo termine) – senza alcuna possibilità di riscatto (sociale o economico), dato che non ce n’è (più) bisogno. Anche da questa sponda, tutto va bene: non c’è ombra sulla Napoletanità Rivisitata.

Un furbo mix

Ma quali sono gli effetti? Cosa accade infatti se “una socialità che è complicità nella trasgressione, non certamente civismo e difesa di patrimonio comunale” si mescola con i luoghi della Foresta Incantata? Cosa accade se i gesti gli sguardi le mosse che segnano l’appartenenza a una certa identità del “sottoproletariato” culturale (se ha ancora un senso questo termine) si innescano come figure centrali nel panorama del Vesuvio e nel conseguente immobilismo oleografico? E se piazza Mercato diventa un’ulteriore articolazione della Foresta Vergine, cosa può succedere? La conseguenza è che l’unico motore del cambiamento possibile di Napoli, quello che viene appunto dalle criticità (sociali ed economiche) e dalle meravigliose energie culturali delle mille piazza Mercato in giro per Napoli (e non solo), è inghiottito in un tutto indifferenziato.

La Natura così rappresentata (nel video di LIBERATO) confonde le differenze della Storia che purtroppo rimangono tutte, intonse. L’oleografia moderna mischia furbescamente ciò che è da sempre frattura e cesura, l’incolmabile divario tra le diverse identità (culturali, sociali, economiche) che rimane una delle tragedie più imponenti (e ancora vive, purtroppo) di questa città (inutile ricordare il Sanfedismo con i lazzari da una parte, e la Repubblica Napoletana e l’albero della libertà dall’altro).

Una nuova rivoluzione narrativa

Ovviamente non si sta dicendo che le diverse tipologie di criticità risiedano solo nei luoghi (cosiddetti) popolari (d’altronde non c’è dubbio che il degrado della civiltà napoletana è sicuramente più pervasivo a Posillipo che a piazza Mercato), né che questi debbano essere oggetto di una riflessione esclusivamente di riscatto. Va da sé – meglio sottolinearlo, non si sa mai – che il mio discorso non è di primo ordine, non si situa a livello della realtà, ma è di second’ordine, si situa a livello della rappresentazione della realtà.

E se il messaggio della Napoletanità Rivisitata è che non c’è nulla da cambiare (perché piazza Mercato è rappresentata solo come un’ulteriore articolazione dell’animo), si ritorna in una condizione di sospensione in cui non si è ancora del tutto svegli né del tutto addormentati. Anzi, peggio: non c’è neanche più bisogno di chiederselo, come fa il ferito a morte Massimo. Certo, è facile cadere nella dolce malinconia e soprattutto nella convenienza (morale e politica) di questa condizione, ma auspico per Napoli una nuova rivoluzione narrativa come quella di Troisi, Daniele e Senese (tra gli altri) che in modi molto diversi ci hanno insegnato a sporcarci le mani nella Storia per cercare di cambiarla, rifiutando qualsiasi oleografia e combattendo qualsiasi immobilismo. Senza rinunciare, per fortuna, a una Bella Giornata.

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