La sua elezione a presidente dell’Eca, con i voti dei club italiani, è una prova di forza (vinta) nei confronti della Federazione. Contano più le prebende delle regole
Cane non mangia cane
Cane non mangia cane. Oggi i club italiani (Napoli compreso) che hanno diritto di voto all’Eca hanno espresso la propria preferenze per Andrea Agnelli presidente. Il calcio italiano considera la sua elezione come una vittoria. Del processo sportivo, in cui è imputato di aver favorito il bagarinaggio e in cui rischia la sospensione, non parla nessuno. Nemmeno un accenno. Nessuno che pensi alla figura non proprio esemplare di aver come uomo più rappresentativo un presidente condannato per rapporti ambigui con gli ultras.
Si chiama realpolitik. Perché, al fondo, come per Raiola, Reina, Insigne, è una questione di soldi oltre che di potere. I presidenti italiani, anche quelli come Lotito e De Laurentiis che hanno combattuto il bagarinaggio e chiuso tante corsie preferenziali ai professionisti del tifo, dimenticano tutto di fronte ai propri interessi. Del resto, in questi mesi, nessuno ha fiatato nemmeno per sbaglio. Né una dichiarazione né un tweet. Come se nulla stesse accadendo. È roba per giornali, a dire il vero per pochi giornali.
Il lavoro diplomatico-lobbistico di Agnelli
Non vogliamo usare paroloni, ma fotografare la realtà. Il sistema-calcio in Italia si gira dall’altra parte, fa finta che il processo sportivo alla Juventus e ad Andrea Agnelli per il bagarinaggio consentito agli ultras non ci sia. Ricordiamo che Rocco Dominello (condannato a sette anni per ‘ndrangheta) era diventato il trait d’union tra il club e gli ultras. Agnelli ha detto di non conoscere la storia di Dominello. È sotto processo, dal punto di vista sportivo, non per aver intrattenuto rapporti con un esponente della ‘ndrangheta ma per aver avallato il bagarinaggio. Il 15 settembre la Procura della Figc chiederà la sospensione di Agnelli.
Un processo sportivo che evidentemente interessa poco ai club e probabilmente anche alla Federazione. Sembra più un intralcio. Andrea Agnelli in questi anni è stati molto bravo sia a conquistare successi con la sua Juventus, sia a far aumentare il fatturato e anche a costruire rapporti diplomatico-lobbistici. Agnelli è oggi probabilmente l’uomo più potente del nostro calcio. La Juventus è riuscita a far eleggere Evelina Christillin (juventina che più juventina non si può) nel board della Fifa. Ha in Michele Uva, direttore generale della Federcalcio e membro del board della Uefa, un uomo di fiducia, al punto che in piena tempesta processuale Uva avvertì l’esigenza di screditare addirittura l’operato della Commissione Antimafia: «Si occupi di altro, non della vendita dei biglietti».
Come per la discriminazione territoriale
Il lavoro di Agnelli ha dato i suoi frutti. Ha creato un contro-potere che oggi è decisamente più forte della Federcalcio. È stato lui il principale artefice della svolta che porterà l’Italia, dal prossimo anno, ad avere quattro squadre in Champions League. Ha tessuto rapporti con i club più influenti d’Europa. E oggi andrà all’incasso. La sua presidenza dell’Eca determinerà a catena un risiko in Lega. Non c’è stato nemmeno bisogno di convincerli i presidenti di club italiani. Che vuoi che sia l’aver contribuito al bagarinaggio in cambio del controllo delle curve, oppure l’aver favorito l’ingresso allo Stadium di striscioni contro Superga. Roba buona per chi crede ancora alle favole. Stavolta siamo noi gli ingenui, siamo più o meno nella stessa posizioni di coloro i quali credono che i calciatori scelgano le squadre in base all’amore.
Si ripete quel che avvenne per il depotenziamento delle norme per la discriminazione territoriale. Primo atto della presidenza Tavecchio, votato anche da De Laurentiis. Oggi Agnelli fa capire che lui è più forte del sistema-calcio, che è lui a dirigerlo. Porta prebende, non inutili comportamenti probi. E ottiene un plebiscito. Poi sarà il calcio italiano a doversi regolare e a scegliere se condannare il suo uomo più potente.