Il Tribunale sportivo ha condannato a un anno di inibizione il presidente della Juventus. “Agnelli ha avallato le condotte illecite»
La ‘ndrangheta non c’entra con la giustizia sportiva
A sentire il circo Barnum che si è subito messo all’opera, la Juventus è stata assolta dai giudici sportivi. Che hanno escluso ogni legame con la criminalità, non sapendo, la stampa amica, che i giudici sportivi non erano chiamati a discutere sul favoreggiamento alla Ndrangheta dei dirigenti della Juventus.
Come se le condanne a un anno di interdizione – operativa da subito – per i deferiti Andrea Agnelli, presidente della Juventus, e per i dirigenti della società bianconera all’epoca dei fatti contestati, Francesco Calvo, Stefano Merulla e Alessandro D’Angelo, e a 20.000 euro ciascuno di ammenda (300.000 per la società Juventus calcio), fossero noccioline.
“Gesto sconsiderato”
Come se non fosse stato chiaro sin dall’inizio che la Procura di Torino non se l’era sentita di accusare i vertici della Juventus di favoreggiamento alla Ndrangheta. Perché, consapevoli o meno, per dirla con il procuratore federale Giuseppe Pecoraro, che presenterà appello come lo faranno anche i deferiti, «parte delle risorse accumulate con il bagarinaggio favorito dalla Juventus, sono andate a esponenti della Ndrangheta». «Insomma – dice Pecoraro – un’attività sportiva ha incrementato il patrimonio criminale».
Che la Juventus tirasse un sospiro di sollievo, fa parte di una commedia già vista. Più sincera la mezza delusione dell’accusa: «Siamo parzialmente soddisfatti perché il Tribunale ha accolto parzialmente l’impianto accusatorio».
In sostanza, per i giudici sportivi non ci sono le prove per condannare Agnelli per l’episodio specifico della introduzione nella curva, alla vigilia del derby Juve-Toro, di striscioni che invocavano una nuova Superga al Toro, e fuochi d’artificio.
E va aggiunto che nell’atto di incolpazione Pecoraro aveva accennato a quell’area criminale dentro la quale si collocavano alcuni capi ultrà.
Il procuratore federale Giuseppe Pecoraro aveva chiesto pene più severe (due anni e mezzo per Agnelli), e la decisione di dimezzarle nei fatti è una scelta che tiene conto della convinzione della innocenza di Agnelli per l’episodio degli striscioni e fuochi pirotecnici introdotti nella curva per scongiurare l’annunciato sciopero dei tifosi. Quell’episodio, per i giudici, è stato «un gesto sconsiderato e pericoloso anche a livello d’immagine».
Agnelli era consapevole
A proposito della consapevolezza di Agnelli della caratura mafiosa del mediatore e rappresentante del cartello degli ultrà, Rocco Dominello (condannato per mafia dai giudici di Torino prima dell’estate), i giudici sportivi sostengono: «Il Tribunale dopo ampia valutazione è giunto alla determinazione che tale frequentazione (tra Agnelli e Dominello, ndr) avvenne in maniera decisamente sporadica ma soprattutto inconsapevole con riferimento alla conoscenza del presunto ruolo malavitoso dei soggetti citati».
«Le vicende contestate – scrivono i giudici – assurgono a vero e proprio modus operandi di una delle società più blasonate a livello europeo per un lunghissimo arco di tempo e hanno trovato la loro conclusione non già a seguito di un volontario cambio di rotta societario, ma esclusivamente per l’avvenuta conoscenza delle attività di indagini della Procura della Repubblica di Torino».
“Ha avallato le condotte illecite”
Agnelli era perfettamente a conoscenza di questa direttiva della società: «Reputa il Tribunale che la invocata estraneità del presidente non possa ritenersi tale poiché il tenore della istruttoria e la indubbia frequentazione dirigenziale con gli altri deferiti unitamente al lunghissimo lasso temporale durante il quale si è dipanato il periodo oggetto di indagine (ben cinque stagioni sportive) e alla cospicua quantità di biglietti e di abbonamenti concessi illegittimamente recitino in maniera opposta rispetto alle ragioni rassegnate dal Presidente».
Sapeva e condivideva, dunque, Andrea Agnelli: «Con il suo comportamento ha agevolato, avallato, non impedito le perduranti condotte illecite».
Del resto i tre dirigenti che eseguivano questa direttiva – Merulla, Calvo e D’Angelo – non hanno mai mostrato preoccupazione di essere scoperti. «Elemento sintomatico del fatto che non sembra che tale modus operandi fosse considerato deplorevole all’interno della società. Tanto è vero che, una volta emersa la condotta illecita, non risulta che la società abbia adottato una politica di completa dissociazione».