Altro che tweet o la frase “sognavo questa maglia” alla prima conferenza stampa. Nell’NBA dei professionisti, gli atleti mostrano il loro lato umano
Higuain e gli altri, l’addio in Italia
Quando Higuain è andato via da Napoli, con tutto il corollario da letteratura della fuga a dettare i ritmi di un’estate che montava urlando al vile e vigliaccio, al traditore, nessuno si aspettava che dicesse qualcosa di diverso dal “sono venuto alla Juve per vincere”. Magari quelli col tatuaggio “Pipita” ancora fresco nel domopak al sole speravano almeno in un ultimo bacio, un gesto d’amore, ma insomma, crederci proprio no. È una questione culturale, il calciatore – quando va bene – saluta e va. Sbarca altrove e immediatamente scopriamo che “sognavo di giocare con questa maglia fin da bambino”, pure se è tipo all’ottavo-nono sogno che si avvera, e che evidentemente da bambino doveva avere le idee un po’ confuse. Da noi usa così, ci siamo avvezzi. Questa è gente educata ad esprimere la banalità costante, al minimo sindacale di qualità lessicale. Fa parte del marketing personale: primo, non nuocere alla tua immagine. Miope e vecchio, ma tant’è.
L’universo NBA
Esiste però un mondo, un altro mondo, che non a caso, da sempre, sta tipo 20 anni avanti. Un po’ di giorni fa i Boston Celtics hanno ceduto ai Cleveland Cavaliers Isaiah Thomas (in un pacchetto con Jae Crowder, Ante Zizic ed una prima scelta al Draft 2018) in cambio di Kyrie Irving. Stiamo parlando di basket, di NBA. Stiamo parlando di uno scambio tra due dei migliori giocatori al mondo tra due squadre entrambe in lotta per il titolo. Una di quelle cose talmente grosse che te la raccontano al tg persino in Italia, magari dopo i risultati del girone C di LegaPro.
Isaiah Thomas non è Francesco Totti, è uno che prima di arrivare a Boston, è stato preso al draft 2011 come sessantesima scelta da Sacramento, e poi ha giocato nei Phoenix Suns. È arrivato – lo scrive lui stesso – da “guardia offensiva che può giocare qualche punto, un sesto uomo”. E a Boston è diventato uno dei più micidiali attaccanti dell’NBA, tra le altre cose primo nella storia dei Celtics a superare quota 20 punti per più di 40 partite consecutive e primo ad aver superato quota 50 sia in regular season che nei playoff.
La lunga lettera
Ora, IT (come lo chiamano da quelle parti) oltre alle conferenze stampa di rito, alle interviste, ai tweet di prassi, ha fatto una cosa: ha scritto una lunga, lunghissima lettera “a Boston” (l’ha titolata proprio così), nella quale fa la cronaca esatta di come è andata la sua cessione. Cosa è successo, dov’era quando ha ricevuto la notizia, con chi era, cosa faceva. Ma soprattutto come ha reagito, come hanno reagito i suoi figli, cosa ha pensato. L’ha fatto su The Players’ Tribune. Qui in Italia, una cosa così non esiste: si tratta di una piattaforma di informazione sportiva lanciata dall’ex New York Yankees Derek Jeter il 1° ottobre del 2014, in cui gli atleti stessi – di qualsiasi sport, hanno collaborato anche Totti e Claudio Ranieri – si raccontano, prima di tutto come uomini. In pratica porzioni di autobiografie, sulle quali lo sportivo lavora con un editor cercando di far arrivare ai lettori “storie oneste”, le persone che si nascondono dietro gli atleti. Un successo clamoroso.
Come è avvenuto e dove si trovava
Thomas in questo caso scrive 18.000 battute, 3.500 parole. Non un tweet. Per farvi capire di che parliamo, comincia così:
“Quando ho ricevuto la telefonata di Danni (Ainge, plenipotenziario dei Celtics, ndr.), stavo lasciando l’aeroporto, io e mia moglie Kayla eravamo andati un paio di giorni a Miami per festeggiare il nostro primo anniversario di matrimonio, ed eravamo di ritorno a Seattle, guidando verso casa. Ho perso la chiamata, facendo altro in macchina. Danny ha lasciato un messaggio:
“IT, chiamami appena puoi.”.
Suona drammatico, ma in verità è un messaggio normale da parte di Danny. Poteva essere per qualsiasi cosa. Così l’ho richiamato mentre guidavo, non dandoci molto peso. Sapeva che ero in viaggio, e così chiede qualcosa sul viaggio, io gli chiedo come stesse lui e la sua famiglia. Insomma, una chiacchierata normale. E poi… una piccola pausa nella conversazione, e questo è quello che mi dice: “Ti ho appena venduto”. Così, semplicemente. Niente paroloni, niente grandi discorsi. Anche se immagino che quando si tratta di merda come quella, non c’è molto di più da dire. “Dove?”. Era tutto quello che potevo gestire. “Ai Cavaliers, per Kyrie (Irving, ndr)”.
Ed ecco quando. Sei mai stato al telefono e qualcuno dice qualcosa … e poi ad un tratto tutto quello che pensi dopo è “non voglio più stare al telefono”? Nemmeno in modo scortese. È come se volessi solo finire la conversazione. E’ quello che sentivo in quel momento. Danny comincia a parlarmi di tutto quello che ho fatto per la città di Boston, e per i Celtics, sia sul campo che fuori. Che sono un grande giocatore e di come sarò grande a Cleveland. Sai, mi dice questo tipo di cose. Ed era proprio come … in quel momento? Non volevo sentire niente di tutto ciò. (…) Questa è stata la telefonata”.
Dirlo ai figli
Thomas sa che a breve la notizia uscirà, e allora sempre dalla macchina chiama i figli.
“Papà è stato venduto”. James, il più grande, che è proprio figlio di suo padre, la prima cosa che mi chiede è: “Dove?”. “Cleveland. Mi hanno venduto per Kyrie”. Sono certo che sapete cosa ha detto lui subito dopo: “LEBRON! LEBRON JAMES! Papà! Andrai a giocare con Lebron James!”.”
Leggete il resto (https://www.theplayerstribune.com/isaiah-thomas-trade-celtics-cavaliers/), ne vale la pena. Il punto è che – lo scrive lui stesso – è arrivato il momento che i tifosi, quelli che seguono lo sport, sappiano e capiscano come funziona quel mondo. Fatto di soldi e affari, ma anche di persone. Che è normale cambiare squadra, anche se “fa male di brutto” (lo ripete non so quante volte). Ma soprattutto che la comunicazione, il racconto meno condizionato possibile e possibilmente mediato con mestiere, è già passato al livello successivo. E fa bene a tutti, agli atleti, al loro status mediatico e al loro portafogli. E alla gente, che può finalmente cercare – chi vuole, chi ne ha la capacità – di capire lo sport ai giorni nostri.
Pensate a cosa sarebbe successo se Higuain, invece di restare impallato dai chiaroscuri del tradimento, avesse semplicemente parlato, spiegato, senza fronzoli e senza retorica. Thomas, alla fine di quelle 18.000 battute, va a Cleveland per vincere. Non ha scelto lui, ci va perché il professionismo nello sport funziona così. Non se l’è presa con i Celtics. Ha semplicemente aperto le porte di casa sua e ha fatto entrare i tifosi della città che ha amato di più. Trasparente. Che è un bel modo di interpretare il ruolo di star dello sport nel 2017. Certo, baciare una maglia dopo un gol costa meno fatica… Tanto quella successiva l’avevi sognata fin da bambino, no?