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“Ammore e malavita”, la genialata di perculare il gomorrismo

Ci volevano due romani per mettere in scena un’intelligente ridicolizzazione della rappresentazione cui ormai Napoli è condannata

“Ammore e malavita”, la genialata di perculare il gomorrismo
Buccirosso e Gerini in “Ammore e malavita”

Una zingarata

Premessa. Sempre a Gomorra stiamo (la linea tracciata da Francesco Durante resta legge, è la nostra stella polare), ma “Ammore e malavita” dei Manetti Bros sonda the pink side del gomorrismo. Uno dei pochi film in cui probabilmente si saranno divertiti di più quelli che lo hanno scritto – quanto avremmo pagato per esserci – che gli spettatori in sala. Che pure ridono eh. E alla fine applaudono anche. È una mandrakata oppure una zingarata, scegliete voi il termine.

Se i Manetti Bros conquisteranno anche il botteghino, meriteranno l’appellativo di geniali. Altrimenti si saranno comunque sganasciati dalle risate, e non è poco. Forse ci sbaglieremo, nella perculata dei Manetti Bros c’è anche qualche citazione per “Lo chiamavano Jeeg Robot”. L’andatura e la postura di Ciro / Giampaolo Morelli somigliano molto a quelle di Claudio Santamaria.

La sedia di Pino Mauro

«Ammore e malavita” è l’enfatizzazione del gomorrismo. In oltre due ore di film che forse non sempre filano. Ma che sono in crescendo, come accade quando una sceneggiatura è ben congegnata. Probabilmente non siamo ai livelli di Song’e Napule ma bisogna anche scontare l’effetto déjà-vu. Si comincia con il funerale del boss alla Sanità, e si conclude con la canzone “Non è Napoli”: inno alla città mentre tutti vanno via o restano in galera. Meriterebbe un premio.

La scena cult non può che essere Pino Mauro che canta in piazza Plebiscito su una sedia che è un tripudio di corni. Un’oscenità che da noi, con i tempi che corrono, potrebbe anche diventare oggetto di dibattito urbanistico. Un’intelligente ridicolizzazione della rappresentazione cui ormai Napoli è condannata. Basta pigiare un po’ sull’acceleratore, nemmeno tanto, per rendere l’idea del macchiettismo in cui siamo immersi.

Gli attori funzionano. Tutti. Anche Raiz, una rivelazione. Ogni dettaglio è stato curato, persino il nome della protagonista – Fatima – di Torre Annunziata. Claudia Gerini è perfetta nei panni della improbabile, cinefila, moglie del boss che si è riscattata da un passato di domestica, ha sposato il suo padrone e cerca di far somigliare la sua vita ai film. Buccirosso è Buccirosso. La riflessione finale è che ci volevano due romani per un corrosivo dipinto della messinscena di Napoli.

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