Napoli è la città che ha perso più ventenni dal 2008 ad oggi. Pubblichiamo un estratto dal libro di Paolo Frascani “Napoli, viaggio nella città reale”
Napoli è la città che perde più ventenni
“L’esodo”: così ha titolato oggi Il Mattino che ha anticipato i dati del «Rapporto Italiani nel Mondo» approntato dalla Fondazione «Migrantes». Ne è emerso che «Napoli è la città italiana che in termini assoluti perde più ventenni. Sono 6.501 i giovani che dal 2008 a oggi sono andati via e si tratta dell’esodo maggiore tra i 50 Comuni in cui dal 2008 è diminuita la popolazione compresa tra i 18 e i 30 anni. Raggelante è scorrere la graduatoria nazionale: prima Napoli, quindi Messina, Taranto, Reggio Calabria, Palermo, Bari e Cagliari con la Sardegna che vede allontanarsi un terzo dei propri ventenni. Concorre a formare questo risultato sicuramente la quota par- te dei 52mila studenti campani che tra il 2006 e il 2016 dopo aver conseguito la maturità si sono iscritti in Università di altre regioni.
Un fenomeno che potremmo definire perenne. Lo scorso anno, uscì per Laterza il libro di Paolo Frascani: “Napoli, viaggio nella città reale”. Libro che a noi risultò molto interessante e soprattutto delle poche analisi a-ideologiche sulla città. Questa mattina ci sono tornate in mente le pagine che Frascani dedicò alla fuga dei giovani della città con un’immagine cruda e triste dei sabato sera dei genitori e nonni rimasti. Ve lo riproponiamo.
Il romanzo cult “Ferito a morte”
Le cose cambiano all’indomani della seconda guerra mondiale. Letterati, musicisti, uomini di cinema e di teatro soffrono la costrizione di un ambiente che offre scarse possibilità di affermazione. Comincia la “fuga” di chi, andando a lavorare negli studi televisivi o nelle case editrici e cinematografiche di Roma e Milano, appaga esigenze e aspirazioni che la città “matrigna” non riesce a soddisfare.
Napoli, secondo Raffaele La Capria in Ferito a morte – romanzo cult del secondo Novecento – “addormenta” come la provincia di Michele Prisco, ma sa anche “ferire” e spesso mortalmente.
Questa nuova percezione del distacco, salvezza e lacerazione a un tempo, sembra accompagnare le successive e sempre più intense ondate migratorie della metropoli del dopoguerra, ma con una differenza sostanziale. La scelta compiuta dal ceto medio degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso si profila come opzione tra prospettive di vita ancora possibili: vivere la normalità del “grigiore” impiegatizio e professionale o mettersi in gioco in altri contesti per realizzare le proprie vocazioni. Da oltre un ventennio questa strada è preclusa. Gli studenti, i laureati, i ricercatori, ma anche gli operai, i tecnici, gli artigiani, che lasciano la città per studiare o lavorare fuori, non hanno scelto, perché costruiscono il loro percorso professionale sul presupposto che l’intero sistema produttivo, il terziario avanzato, l’area delle professioni e del pubblico impiego, non hanno più niente da offrire, né possono più garantire la legittimazione economica adeguata al loro status.
Nel 2014-2015, 36mila giovani campani andarono in Università del centro-Nord
(…) Nell’anno accademico 2014-2015 36mila giovani campani hanno scelto di frequentare i corsi di università situate in regioni del Centro-Nord. Di questi, alcuni ingrossano il flusso dei laureati italiani che ogni anno cercano lavoro all’estero, prevalentemente in Inghilterra, Germania, Svizzera, Francia, Stati Uniti. Napoli rientra in questa tendenza, anche se guarda maggiormente alle città del Nord. L’analisi della mobilità sui cambi di residenza la pone, in relazione al numero di abitanti, al primo posto per abbandono del luogo d’origine. Allontanamenti che impoveriscono le opportunità di sviluppo, in quanto, osservano Michele Colucci e Stefano Gallo, «tali flussi sono sempre di più composti da quella parte della popolazione con maggiori livelli di istruzione e quindi tendenzialmente con maggiori competenze tecniche e intellettuali».
Una significativa quota della potenziale classe dirigente
Chi lavora nell’alta formazione sa che alla fuga di cervelli degli ultimi vent’anni si è accompagnato un epocale esodo di massa. Dalle università della Campania sono state sistematicamente dirottate verso le imprese, le agenzie finanziarie e i mestieri rivolti al mondo dell’internazionalizzazione e la sistema delle comunicazioni, le competenze professionali più qualificate della città e della regione. Si tratta di un’emigrazione che, per intensità e volume, ha selezionato la crema delle classi medie: trentenni e quarantenni che costituiscono una potenziale e significativa quota della classe dirigente della città. Emigra, dunque, un pezzo di ceto medio che qui, più che altrove, disegna il proprio progetto di vita su parametri in linea con i mercati del lavoro nazionali e internazionali.
Il sabato sera dopo il cinema
(…) Cambiano anche i riti del “costume” locale. Sabato sera: all’uscita da un cinema di via dei Mille si ripete lo “struscio” della Napoli borghese. Donne e uomini vestiti alla moda, giubbotti e maglioni su jeans di buona marca, qualche volto abbronzato, confermano i tratti distintivi di una middle class che si informa, si aggiorna e si riconosce nei gusti e nei comportamenti. Ma qualcosa è cambiato. Tra di loro i “giovani”, quelli della fascia tra i 25 e i 45 anni, non sono molto e si confondono tra gli ultrasessantenni che sciamano verso i luoghi di ritrovo della Chiaia by night.
A tavola si parla del film appena visto e della prossima partita del Napoli, ma, inevitabilmente, ci si sofferma sul tema del cuore: lo scambio di notizie sui “convitati di pietra”, gli assenti, figli e nipoti che, per motivi di studio e di lavoro, vivono in un altrove più promettente. Sono partiti e difficilmente torneranno. Vite parallele rievocate in uno story-telling tratto dalle nuove abitudini della classe media cittadina. Trasferte sempre più frequenti con la Tav o in aereo, conversazioni serali via Skype per scrutare condizioni di salute e stati d’animo, mantengono la solidità dei legami familiari e a volte sanciscono l’irrimediabilità dei distacchi e delle fratture.
Ma significano pure la condivisione di emozioni e conoscenze che allargano gli orizzonti anche di chi è rimasto, genitore o nonno, “a distanza”, e tuttavia sintonizzato con luoghi e mondi lontani. Una spinta al superamento di barriere spaziali e culturali che fa intravedere l’altra faccia della fuga di braccia e cervelli.