Nessuno riconosce a una società, nata e cresciuta dopo un fallimento, in un contesto largamente depresso, la capacità di programmare, rischiare, coinvolgere e fare politica
Nessuno riconosce al Napoli il suo ruolo
Pare dunque che, in quel fatato mondo di La La Land che spesso è il giornalismo sportivo nazionale, si attendesse il Napoli in testa alla classifica a macinare vittorie record per affrontare il complesso problema della redistribuzione della ricchezza nel calcio. Ironia della sorte, nel campionato più incerto dell’ultimo decennio, il tema è diventato il divario troppo largo tra abbienti e diseredati.
Ebbene sì, cari napoletani: con i vostri tredicimila euro di ricchezza pro capite media del 2015 – che, pur moltiplicati per tre con un semplice fattore “lavoro nero” si avvicinano appena a quelli ufficialmente dichiarati nello stesso anno, ad esempio, a Milano – avete contribuito a evidenziare il grave flagello del mondo del pallone. Siete troppo ricchi, sbilanciate terribilmente la competizione. È ora che il sud si ridimensioni e accetti compromessi più ragionevoli lasciando anche agli altri, poveri della nazione, qualche briciola. È la annosa questione settentrionale.
Poi, certo, potremmo attendere – persino dalla stampa specializzata cittadina – un’analisi un filino più realistica del fenomeno calcio a Napoli, magari riconoscendo ad una società, nata e cresciuta a valle di un fallimento, in un contesto largamente depresso, la capacità di programmare, rischiare, coinvolgere, ben oltre l’oggettiva stasi del contesto socioculturale in cui essa si muove, riuscendo persino a fare politica.
Un luogo di crescita per i calciatori
Potremmo addirittura spingerci oltre, certo non privi di una dose di rischiosa hybris, e azzardare l’ipotesi che la società partenopea, per la prima volta nella sua storia, stia creando una propria leadership culturale nel Paese, definendosi come scuola nella quale i calciatori giungono e ripartono per ovvi motivi di ambizioni professionali ma ottengono dal transito esperienza e maturità da poter rivendere con successo altrove.
Si leggano a riguardo le ultime testimonianze di Pavoletti e, ancor di più, Strinic, il quale ci restituisce l’immagine di un Sarri addirittura freddo nelle sue scelte, ben lontano dalla retorica stantia della squadra in cui si è tutti amici fraterni dietro il caffè e il mandolino quotidiani, e dove invece albergano le giuste tensioni dei necessari spiriti competitivi.
Non è nato ricco
Il Napoli, cari amici giornalisti, è un esempio di libero mercato e meritocrazia mediati e corretti da una dosata prospettiva mediterranea. Non è nato ricco, non è figlio di figli industriali, non ha un padre magnate, non gioca in una città ricca di danari o strutture. Anzi trova attorno, nella migliore delle ipotesi, una prolungata demagogia politica localistica spesso surreale. Fatevene una ragione. Se l’Italia ha uno stile, nel calcio, oggi – sul campo e fuori di esso – lo deve soprattutto alla maglia azzurra. Lo stile, che fu degli Zoff e degli Scirea e che stenta drammaticamente a farsi strada in qualunque discussione metacalcistica che riguardi la Juventus dell’ultimo decennio, totalmente appiattita su una visione sterile e – ci venga concesso il termine – quasi volgare della vittoria. Lo stile, proprio lui, lo stesso che Valdano descrisse come ciò che, propedeutico a ciascuna vittoria, ci suggerisce con crudele sincerità cosa davvero siamo.