“Napoli. Viaggio nella città reale” di Paolo Frascani attraversa la città dalla crisi del modello fordista. Una città, scrive, «che non ha mai sopportato di essere studiata»
Napoli non sopporta di essere studiata
Quando tra i titoli di un giornale o gli scaffali di una libreria l’occhio scivola sulla parola “Napoli” la curiosità, si accende in automatico. Certo è la città in cui sono nato e cresciuto, ma rappresenta anche un continuo esperimento di dispositivi ed illustrazioni immaginifiche, e sul Napolista abbiamo osservato i diversi lati di questo prisma narrativo: quello linguistico, della rappresentazione mediatica o di un percorso ideale.
Si potrà obiettare che, per quanto interessanti, sono ritratti parziali o visioni soggettive di una città che non amando le etichette, fatica ad esprimere un quadro d’insieme, un’analisi su dati empirici ed è quello che ha provato a fare Paolo Frascani, professore emerito di Storia dell’Università di Napoli “L’Orientale”, in “Napoli. Viaggio nella città reale” [Laterza, 14 euro].
Pur essendo uno studioso di rango e testimone informato dei fatti, Frascani ammette le difficoltà di compiere un’operazione di questo tipo, poiché Napoli «non ha mai sopportato di essere studiata, né interpretata, nella sua complessiva e inaccessibile “globalità”, e mal sopporta oggi, nel tempo della “post verità” che vede la ricerca dei fatti sovrastata da pulsioni umorali e convincimenti personali».
Il crollo del modello d’impresa fordista
L’autore, sfidando quest’endemica allergia, prova ad indagare le dinamiche relativamente recenti che hanno rallentato lo sviluppo della città, individuando nelle fragilità e nei limiti «della struttura industriale cresciuta, tra gli anni ‘60 e ’70, per la dislocazione della grande impresa di Stato» e in seguito entrata in crisi a causa del processo di riconversione e per gli effetti della recessione economica. Ciò ha comportato un crollo del modello d’impresa fordista che unitamente ad interventi edilizi – ingrassati dai finanziamenti post-sisma – ha reso Napoli, secondo la descrizione dello storico Galasso recentemente scomparso, «una moderna città europea priva di un carattere dominante, senza una struttura veramente unitaria, senza neppure un’egemonizzazione dei suoi contrasti da parte di questo o quell’elemento della società italiana».
Se però le città del Nord riuscirono a superare la crisi del modello fordista, da un lato grazie alle piccole e medie imprese e dall’altro grazie alla riconversione tecnologica degli anni 80, Napoli è spettatrice di tali processi, grazie anche ad una classe politica locale «arroccata nelle cittadelle ministeriali», interessata solo ad «intercettare risorse pubbliche per garantire la sopravvivenza dell’ossatura industriale del Mezzogiorno», per poi finire travolta – così come nel resto d’Italia – dallo tsunami di Tangentopoli.
Bassolino e il cosiddetto Rinascimento
Napoli si trascina questa pesante eredità, anche nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, con tutta l’incapacità di analizzare la parabola politica di Antonio Bassolino al di fuori di schemi e categorie classiche, e non trattandola come «il tentativo, fallito, di affrontare con una nuova classe dirigente i problemi che la stagione post-fordista aveva lasciato a Napoli, a Milano e a Torino».
Per quanto interessante, è una chiave di lettura minoritaria. Il primo mandato di Bassolino è interamente fagocitato dal “Rinascimento napoletano” e della “politiche simboliche”, in tale contesto indubbiamente la città vive una rigogliosa stagione culturale, ma sia Frascani che Percy Allum insistono «sull’importanza del ruolo delle élites intellettuali nel fallimento delle iniziative intraprese dalle forze imprenditoriali nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso».
È il mondo della cultura, della società civile, della buona borghesia ad aver tradito Napoli, accompagnando questa fase di rinascita, sfruttando i copiosi finanziamenti, approfittando di politiche dirigistiche, valorizzando un passato glorioso e recuperando «le tradizioni, il dialetto, le storie locali ed i loro protagonisti semisconosciuti».
La critica alle élite culturali
Frascani nella critica alle élite culturali, così come fatto nell’analisi sull’esperienza bassoliniana, si sofferma sulle rappresentazioni e tendenze economico-industriali a seguito delle dismissioni nei settori della siderurgia, della meccanica e petrolchimico. A partire da quella stagione «cambia il modo di raffigurare la vita di fabbrica: dalla sociologia letteraria di Donnarumma all’assalto, di Ottiero Ottieri, si passa alla fatalistica e stereotipata rappresentazione del mondo del lavoro industriale del film di Nanni Loy Mi manda Picone […] L’immagine prevalente è quella delle pratiche modernizzanti dell’impresa coeva, contaminata da un viluppo di interessi, mentalità, prevaricazioni politiche, difficilmente contrastabile».
I luoghi comuni
Dall’insieme di tali fattori storici, politici, culturali ed economici per l’autore si materializza un quell’indigesto miscuglio di luoghi comuni, che rende Napoli irriconoscibile «fino al punto di invertire il rapporto con la realtà. Roberto Esposito afferma che quello che vi accade sembra imitare un’immagine. Insomma, è la realtà a imitare la rappresentazione e non viceversa».
Qui Frascani evidenzia uno snodo fondamentale, sui cui spesso Il Napolista si è soffermato, la volontà di far indossare calzari omologanti ed abiti cuciti a misura di luogo comune.
In tale contesto però, la pizza e il mandolino, per quanto ricorrenti e ridondanti, mostrano segni derivanti da un’usura straordinaria lasciando spazio «ai caratteri ed i luoghi dell’insanabile marginalità» narrati dalla Ferrante; al «sound di Pino Daniele, percepito, alla sua morte, come compagno di strada e punto di riferimento identitario»; alla «new neapolitan cinema […] di Garrone e Sorrentino che si distingue dai precedenti prodotti cinematografici sulla città per il desiderio di confrontarsi con la società napoletana, per problematizzare le attuali forme di espressione e proporre nuove modalità di rappresentazione della città e della sua cultura».
Il contrasto tra realtà e rappresentazione
È nel contrasto tra realtà e rappresentazione; nella rivalità tra l’onnipresente brand Gomorra e la città come «laboratorio di attività sociali e di crescita artistica»; nella contesa tra il “Se Steve Job fosse nato a Napoli” e le numerose start-up/imprese di successo; tra l’allarme babygang ed i numeri record di Capodichino; nell’antagonismo tra la borghesia chic ed il ribellismo dei ceti medi che sembra plasmarsi questa nuova, vitale, identità napoletana che vede in Luigi De Magistris e nella sua mentalità populista, una mirabile sintesi. Ancora più apprezzabile per fiuto ed equilibrismo politico, basti pensare al tentativo di presentarsi come “l’amministrazione degli ultimi”, per poi avere la propria roccaforte e base elettorale «entro l’area dei ceti medi dei quartieri centrali più sensibili alla mobilitazione connotata in senso ideologico ed identitario» mentre in quei quartieri «a maggioranza di popolazione svantaggiata […] ha disertato le urne circa il 70 % dei cittadini».
Una Napoli reale e bifronte, quella puntualmente descritta da Frascani, che quotidianamente fa i conti con le proprie idiosincrasie, non occultandole, ma ricercando continuamente nuove soluzioni, mediante la scomposizione e ricomposizione di rigenerate articolazioni sociali. È una città indubbiamente attraversata da ataviche difficoltà, con una consistente fuga di cervelli, non più però ripiegata su se stessa e né soffocata da nauseabondi sacchi di spazzatura.
Napoli, approfittando di questa ripresa, può decidere cosa fare da grande: o archiviare la metafora dell’ostrica e dello scoglio di De Zerbi – «la piccola città dell’élite napoletane vive attaccata ed al tempo stesso distinta dallo scoglio che raffigura la numerosa e affollata plebe – sciogliendo le proprie contraddizioni o proseguire in questa coazione a ripetere, di grandiosità narcisistica, per poi scoprirsi inadeguata di fronte allo specchio di un realtà che polverizza l’idea secondo la quale diversità è sinonimo di superiorità.