Il Napoli degli anni Settanta ha regalato poche gioie e tante illusioni, ma l’identità del popolo e della città sopperiva alla mancanza di vittorie.
Senso di appartenenza
Ti avvicini ad uno sport, da piccolo, cominci a capirne le regole, le logiche, le strategie…ed è inevitabile abbracciare la bandiera del più forte: a tutti piace vincere facile! Quando ero bambino si stavano appena sbiadendo i fasti delle milanesi – anche se Rivera e Mazzola ancora spadroneggiavano sui giornali ed in TV. Rombo di tuono invece giocava, coerente ed incorruttibile, in un
Cagliari che non aveva più nulla dello squadrone del ’70. La Juve, come sempre, faceva sentire il suo peso politico ed economico, arraffando sul mercato i migliori giovani (Gentile, Tardelli, Longobucco ecc). Per me tifare Napoli non è mai stata una scelta ma la naturale conseguenza di un senso di appartenenza ad una città, ad un popolo, alla mia famiglia. Nella quale tutti quelli che si interessavano di calcio amavano un solo colore: l’azzurro!
Cosi anche per me la passione ha un solo colore, nonostante per noi tifosi fioccassero soprattutto le delusioni. La prima fu la cessione di Zoff (il mio primo idolo), poi il gol di Altafini. E poi ci si chiede dove nasce la “simpatia” per i non colorati! Del resto a quei tempi la maglia veniva indossata da Sperotto, Ferradini, Macchi. Insomma non proprio campionissimi.
Rare le gioie: il calcio totale di Vinicio; la convocazione in Nazionale di due giocatori azzurri, Juliano ed Orlandini, che a Rotterdam giocarono alla grande ma persero contro un’ Olanda all’epoca fantastica; la vittoria della Coppa Italia contro il Verona (all’epoca ci si accontentava veramente di poco!).
Mai però è stata messa in discussione la fede, più profonde erano le delusioni più cresceva la voglia di riscatto. Ma un giorno all’improvviso, Totonno Juliano decise di acquistare il più grande di tutti. E da allora il corso della storia azzurra cominciò a cambiare.