Un ricordo di Amedeo Stenti, mancato tre giorni fa a 77 anni. Negli anni sessanta, difese da ultimo baluardo la porta che fu di Bandoni e di Zoff, in un Napoli indimenticabile.
Da lassù hanno giocato in anticipo, come un portiere che ai suoi tempi chiamava la palla all’ultimo difensore. “Mia, è mia!” gridava prima Claudio Bandoni e poi Dino Zoff all’indirizzo di Amedeo Stenti quando era sicuro di raccogliere il cross degli avversari o quando usciva per sbrogliare una situazione di pericolo. Amedeo, dopo quell’urlo quasi disumano del portiere, si girava, si assicurava che la sfera fosse tra le braccia di Claudio o di Dino e chiamava tutto il reparto al rispetto del suo ruolo. Pogliana era pronto a partire sulla sinistra, Nardin ricominciava a seguire l’ala mancina come un segugio e Dino Panzanato si piazzava, come un falco sulla preda, sul centravanti. Lui, Amedeo, restava dietro tutti, guardava il Napoli salire, manovrare ed attaccare dalle spalle. Lui ed i suoi 181 cm di altezza che ne facevano un corazziere, un pilastro della difesa partenopea.
Un predestinato
La sua fu una carriera fulminante che si snodò essenzialmente in tre tappe fondamentali. Undici anni filati, 5 stagioni a Vicenza, 4 a Napoli e 2 a Verona. Prima, però, da ragazzo sbarbato e garbato, aveva esordito nella Civitavecchiese a 16 anni prima di passare tra i semi professionisti della Tevere Roma nel 1959. L’anno dopo i biancorossi del Vicenza lo acquistano e qui vi rimane per cinque anni collezionando 127 presenze e tre reti. A venti anni è già un libero affermato, un predestinato. Fiore gli mette gli occhi addosso e nell’estate del 1965 lo prende per sostituire Ronzon che non dà più le necessarie garanzie.
Di Stenti che scalpitava alle sue spalle si accorse anche troppo Ronzon che andò in crisi per l’inopinata concorrenza che gli era capitata tra i piedi. L’esperto difensore non aveva tutti i torti, sentì sfiducia intorno a sé dopo il bellissimo campionato della promozione e dopo gli attestati di stima di Fiore. Un presidente pirotecnico che addirittura disse “Eri e resti il miglior libero d’Italia”, mentre comprava Stenti. Ovviamente Pesaola li provò entrambi nel ruolo ma in cuor suo aveva già scelto. Era Stenti il nuovo battitore libero del Napoli, Ronzon non poteva far altro che retrocedere a terzino destro o giocare nel suo vecchio ruolo quando si presentava l’occasione.
Verona, per svernare
Quando passò al Verona, nel 1969, non incrociò mai il suo destino con quello del Napoli. Giocò due anni nella squadra scaligera ma in tutti e quattro gli incontri con gli azzurri non scese mai in campo. In fondo la sua carriera l’aveva chiusa nel Napoli, nella fredda Verona c’era andato solo per svernare, solo per dimostrare che poteva ancora giocare a buoni livelli. Invece per lui, con sole 24 presenze in due anni, per una lunga serie di infortuni tra cui una maledetta borsite, fu l’atto finale di una carriera bella e soddisfacente.
Civitavecchia, il suo luogo natale, lo ha pianto molto al funerale. Lì, nella città laziale, lo considerano il più forte giocatore civitavecchiese che abbia mai calcato i campi di Serie A. Lì, dove la maggior parte del lavoro si svolge al porto, dove partono navi e traghetti, barche e pescherecci, Amedeo Stenti è stato e rimane un mito. Lo hanno adorato e voluto bene fino agli ultimi giorni ed ancora lo ricordano per le passeggiate che faceva in città.
La squadra di Pesaola
Sì, lo hanno chiamato d’anticipo, dai cieli azzurri. Un brutto incidente automobilistico, giorni di coma irreversibile e poi la fine. Stenti, libero di uno dei Napoli più belli della storia, secondo posto dietro il Milan nel 1967-68, avrebbe potuto finire la sua partita in modo diverso se non fosse accaduta quella sinistra disgrazia. Lui e quella ‘nidiata’ di giocatori nati quando la Seconda Guerra Mondiale doveva ancora terminare. Avrebbe potuto ancora rivedersi ed abbracciarsi con qualcuno dei campioni di quei meravigliosi anni ’60, ridere come si faceva in quello spogliatoio tenuto su dalla cantilenante voce del “Petisso”, preoccuparsi per una gara difficile, andare in ritiro senza battere ciglio perché si stava bene insieme, condividere le uscite con i compagni di squadra sul golfo di Napoli, vivere la città ed i suoi caldi tifosi come fece in quei bellissimi quattro anni tra le fila degli azzurri.
Purtroppo quella squadra sta perdendo i pezzi e qualche lacrimuccia sta rigando il viso dei tifosi che snocciolano ancora, per averla vissuta da vicino e non solo sugli almanacchi, quella formazione. “Zoff, Nardin, Pogliana, Stenti, Panzanato, Girardo…” come il “5 Maggio”, come la “Cavallina storna”, come un rosario.
Di quella squadra, Barison nel 1979, Sivori nel 2005, Nardin nel 2014, seguiti da Pesaola nel 2015 si sono avviati, si stanno divertendo in Paradiso. Adesso arriva anche lui, con quella faccia da attore della “Commedia all’italiana”, dei film in bianco e nero che descrivevano un’altra Italia, quella del ‘boom economico’, della spensieratezza, della guerra lasciata finalmente alle spalle, di una serenità acquisita solo dopo la fame vera, delle Vespe e degli elettrodomestici, della famiglia unita, dello stadio senza incidenti. Chissà cosa racconterà lassù il ‘sor’ Amedeo con quel viso pulito e il sorriso sempre pronto.