È un estraneo che può entrare in sintonia con questa città, come accadde a Bianchi. È un allievo di Liedholm, predilige sempre il tratto umano. A differenza di Rafa
La frase di Albertini
Da questo punto di vista penso proprio che può far crescere anche la modalità di approccio della piazza perché sappiamo tutti che a Napoli ci si entusiasma e ci si deprime rapidamente. Ma non sarà l’ambiente a doversi adattare a lui, perché Carlo è così bravo da farlo sembrare naturale».
È una dichiarazione rilasciata l’altro giorno al Mattino da Demetrio Albertini, frase che è parte dell’intervista concessa a Bruno Majorano. Una frase fondamentale per comprendere il nuovo allenatore del Napoli e anche per fare un po’ di chiarezza su un’operazione che soltanto all’apparenza – e, consentiteci, per coloro i quali preferiscono fermarsi all’aspetto superficiale – è la fotocopia di quella condusse Benitez a Napoli. Qui facciamo un’altra citazione, stavolta tratta dal Napolista, dall’articolo di Mario Colella: “Ancelotti non lo si faccia diventare – questo lo dico ai neo ancelottiani napoletani – un idolo odioso di giacobinismo antinapoletano, non lo scaraventiamo nelle nostre diatribe inutili, solo divisive”. È una zeppata anche a noi del Napolista, ma non facciamo fatica a dire che anche Colella centra il punto.
Le prime ore napoletane dicono tanto
Ancelotti è certamente un estraneo a Napoli, una sorta di alieno, ma un alieno curioso e sempre disposto a mettersi in gioco. Basta osservare quelle pochissime ore che ha dedicato al Napoli per comprendere che in lui – per tagliarla un po’ con l’accetta – convivono il cosmopolitismo e il provincialismo. Ancelotti arriva a Napoli, risponde al tweet di benvenuto di Allegri e lo fa incurante delle critiche che possono piovergli addosso. Perché Ancelotti non ha bisogno di assecondare la platea, lui che è persino anti-juventino ortodosso ma lo è a modo suo. Allo stesso tempo, non ha paura di farsi fotografare in una posa che ai più potrebbe sembrare ridicola, quella alla James Bond con Aurelio De Laurentiis. Se la lascia scattare. L’indomani quella foto è in prima pagina sulla Gazzetta. Così come la notizia del suo arrivo a Napoli finisce sul Washington Post.
Si è sempre definito un provinciale
Scommettiamo che non dirà popolo napoletano, che non userà quegli artifizi retorici del populismo per ingraziarsi la platea. Non gli serviranno. Ancelotti si è sempre definito un provinciale. I titoli dei suoi libri – che vi invitiamo a leggere – parlano di e per lui. “Preferisco la coppa” che è un doppio senso, la coppa è intesa anche come salume. E “Il leader calmo”. Oggi Giancarlo Dotto, in un bel ritratto di Carletto sul Corriere dello Sport, ricorda così la sua esperienza bianconera:
L’ho visto triste e a disagio (anche se lui non lo ammetterà mai), solo quando allenava la Juventus e non perché i tifosi gli avevano dato del “maiale”, animale peraltro molto amato dalle sue parti, ma perché si percepiva meschino, poco più che una comparsa nel potentissimo cartello di Moggi e soci dell’epoca.
«Mi riconosco molto in Morandi»
Giancarlo Dotto si mette in scia ad Albertini. Definisce Ancelotti “ragazzo di campagna, che ne ha viste di vanghe e di vacche. Italiani veri come Ancelotti, Morandi, Al Bano. Riporta una sua frase che sarebbe da incorniciare: “Mi riconosco molto in Morandi. Io, come lui, sono da bosco e da riviera», mi disse un giorno da allenatore celebre e finalmente rilassato. «Però, preferisco essere da bosco. Tra la trattoria e il grande ristorante, scelgo sempre la prima, dove posso fare la scarpetta». E riportiamo un altro passaggio che secondo noi è illuminante:
Negato per le lingue, ma secchione come mamma l’ha fatto, si è sbattuto con eroica dedizione, dopo il romanesco (l’unica che gli è venuta facile) e il meneghino, ha imparato l’inglese, il francese, lo spagnolo e stava per imparare il tedesco prima di essere messo alla porta. Giurateci, da qui a ottobre spiegherà il suo 4-4-2 a Insigne e compagni con la lingua e le pause di Eduardo.
Benitez andò al muro contro muro
È profondamente sbagliato il paragone, peggio ancora l’appiattimento, con Rafa Benitez. Benitez – che noi del Napolista abbiamo amato tantissimo e ancora amiamo – era un sacchiano dentro. Un integralista. Cocciuto. Voleva e vuole plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza, certo che la sua immagine sia la migliore possibile. Benitez sì che a Napoli andò allo scontro, al muro contro muro. E bisogna anche ammettere che poi il triennio Sarri ha dimostrato come non avesse affatto tutte le ragioni. Ma, ovviamente, nemmeno tutti i torti.
Liedholm
Per comprendere Ancelotti, bisogna fare l’elenco dei suoi “maestri”. E il primo fu Nils Liedholm un filosofo più che un allenatore. Un gigante che è riuscito a vincere a Roma, per giunta senza Maradona. Che era all’avanguardia in un’epoca in cui le statistiche non c’erano (e sappiamo cosa pensi Ancelotti delle statistiche). Liedholm è l’uomo che letteralmente trasformò in calciatori due rospi di belle speranze che avrebbero potuto tranquillamente perdersi: Bruno Conti e Roberto Pruzzo. Per non parlare di altri. Che giocò una finale di Coppa dei Campioni con in panchina Malgioglio, Oddi, Strukelj, Chierico e Vincenzi. Che quando portò con sé a Milano Di Bartolomei, notoriamente bradipo, disse: «Ho detto ad Agostino che deve correre di meno». Liedholm ha prodotto calcio e buon senso. Ha trasmesso ad Ancelotti quel sano distacco che è servito al tecnico di Reggiolo per il definitivo salto di qualità dopo la fine del suo furore sacchiano che lo spinse a dire no a Baggio al Parma.
Arrigo Sacchi
Perché il secondo maestro di Ancelotti è stato Sacchi l’uomo che lo volle fortemente al Milan. Che al Berlusconi che gli obiettò: “Ma ha il ginocchio invalido al 30%” rispose: “Sì, però il cervello funziona al 100%. Lo prenda e vinceremo lo scudetto”. Ha seguito Arrigo a Usa 94, gli ha fatto da secondo nella Nazionale. Ha creduto, alla Benitez, che il calcio potesse esser racchiuso in un solo modulo e in un solo modello. Poi, però, si è affrancato dal 4-4-2 e soprattutto da quella visione. Gli è ritornato su – potremmo dire ha metabolizzato – Nils Liedholm. E Liedholm lo ritroviamo in quei passaggi della sua biografia “Il leader calmo” che abbiamo riportato l’altro giorno: “Con Berlusconi, proprietario del Milan dal 1986, imparai molto in fretta che il mio lavoro era farlo contento”. E ancora: “Non posso controllare la volontà del presidente, posso solo sperare di influenzarlo, e l’unico modo per farlo è vincere. Perché se lui è felice, lo sono anch’io; e se lui non lo è, io perderò il posto e non potrò più proteggere i giocatori”.
Dietro un calciatore, c’è un uomo
Ha cominciato un percorso che lo ha portato ad allenare le squadre più importanti del pianeta. E con tutte a vincere qualcosa. Senza mai smarrire il tratto della sua personalità. La calma, la duttilità, oltre all’intelligenza, la passione, la competenza calcistica, il sano distacco. Ha resistito otto anni con Silvio Berlusconi nel pieno del vigore, è riuscito sempre a dribblare con ironia le pressioni presidenziali per la formazione. Ancelotti, a differenza di Rafa, ha una predilezione per il tratto umano. Sa che dietro un calciatore c’è un uomo. È il suo approccio. Nel bene e nel male. È quel che portato Lavezzi a dire: «Ho litigato con tutti gli allenatori che ho avuto, con lui non ci sono riuscito». O altri calciatori a esibire in questi giorni auguri e attestati di stima nei suoi confronti. Da Xabi Alonso a Kaka, fino a Maldini e a Shevchenko.
Ancelotti, ovviamente, è distante da Napoli. Ma è un diverso che può entrare in sintonia con questa città. Nel rispetto delle differenze. Come peraltro accadde con Ottavio Bianchi. È un uomo che ha fatto della massima di Mourinho uno stile di vita: “Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. Ama mangiare, ama il cinema. Sintetizzando: è uno che sa campare e sa come va il mondo. Non ha paura. Mai. Come ha confessato in quest’intervista col figlio che vi consigliamo di guardare su Youtube.
Quindi è inutile, oltre che stupido, riproporre le contrapposizioni che ci hanno accompagnato con Benitez e anche con Sarri. Così come è decisamente fuori registro definire Ancelotti un uomo di sistema, restando incollati al giochino ironico della rivoluzione, giochino cui qualcuno ha finto di credere davvero. Ancelotti è uomo di calcio. È uomo che ha vinto tanto. E che ha perso tanto. E in maniera bruciante. Perché solo chi ha perso, può vincere. Che, quasi alla Kipling, ha reagito nello stesso modo alla sconfitta e alla vittoria. Ha perso una partita che resta nella memoria come una delle più brucianti sconfitte della storia, la finale di Champions a Istanbul contro il Liverpool di Benitez. Una sconfitta che avrebbe distrutto chiunque, e invece lui due anni dopo si prese la rivincita. Lo scorso anno è stato buttato fuori dall’arbitro nella sfida di Champions tra il suo Bayern e il Real Madrid. Ha visto scivolare via tantissimi anni fa, sotto l’acquazzone di Perugia, lo scudetto con la Juventus. E a caldo reagì così.
Ancelotti a Napoli, perdonate lo scadimento retorico, è un libro da scrivere. Non è un libro già scritto. Lui arriverà senza pregiudizi. Sarebbe bello se lo facessimo anche noi.