avrà pure commesso i suoi errori ma in panchina non aveva Douglas Costa. È tempo di commiati: da Reina a, forse, lo stesso Sarri. Oltre a Wenger e a Iniesta
FALLI DA DIETRO – COMMENTO ALLA 36A GIORNATA
Commiati.
I ragazzi proprio non ne hanno più. Ma a noi non resta che ringraziarli.
E sono in cinquantamila al San Paolo a festeggiare lo straordinario campionato azzurro.
C’è tempo poi per i bilanci. E per i rimpianti.
Non ci resta che ringraziare il Pepelato che saluta tutti in un commosso giro di campo e se ne va a Milano, dove farà più freddo.
Non ci resta che ringraziare Sor Tuta. Anche lui sempre più lontano da Napoli.
Il popolo napoletano è con lui. Non con l’Impomatato patron protagonista in settimana di una intervista apparsa, in alcuni passaggi, molto ambigua.
Sor Tuta ha avuto il merito di far giocare una squadra come gioca il Barça senza essere il Barça.
Ha difeso un’idea di gioco ispirata alla bellezza. Parola che è già tutta una rivoluzione in sé.
Ha mantenuto vivo il campionato fino a maggio. Ha lottato fino alla fine.
E alla fine è arrivato secondo.
Perché chi è arrivato primo era più forte.
Su tutti i fronti. E non c’era competizione.
Sor Tuta avrà anche i suoi demeriti
Avrà avuto anche dei demeriti Sor Tuta.
Lo scarso impegno nelle Coppe.
Lo strano evaporare di una squadra agli appuntamenti fatali.
La gestione della rosa.
Ma chissà forse in panchina cercava ma non trovava qualcuno che somigliasse a un Douglas Costa. O a un Felipe Anderson. O a un Politano che da solo nelle ultime partite ha salvato i Ceramisti. O anche a un pivellino genialotto come l’Under sangue oro.
Wenger
Il quale Under stende da solo i sardi e assicura ad Eusebio da Pescara il terzo posto.
Addolcendo un poco le incazzature per una finale a Kiev ingiustamente svanita.
Anche il Parapet alla fine si assicura l’Europa con un poker e un paio di aiutini preziosi.
Ma non parlerò di arbitri né di Var. Non parlerò di cose che non comprendo.
Parlerò di commiati.
Dopo 22 anni, Wegner lascia l’Arsenal, la squadra del suo destino.
Già perché lui si chiama Arsene, e non poteva che allenare i Gunners.
Ha vinto tre campionati e sette Coppe d’Inghilterra.
È andato via per sua scelta.
Da uomo verticale.
In risposta alla contestazione di una parte della tifoseria che gli rimproverava – lui cultore del bel gioco – di aver preferito l’estetica a un certo pragmatismo vincente.
Commiati.
Iniesta
È Clasico al Camp Nou.
Ed è sempre grande spettacolo.
Quattro reti, qualche cazzotto di troppo, Messi, Rolando un’espulsione e almeno un rigore negato.
Ma è sua la festa.
Andrés Iniesta Luján cammina per il campo a piedi scalzi, per sentire più sua quell’erba che sua sarà per sempre.
Tutto il pubblico del Camp Nou si alza in piedi.
Lo chiama forte, come se volesse in qualche modo convincerlo a non andare via.
Al Barça dall’età di 12 anni, in tutto 22 anni in blaugrana.
Qualcosa come 672 partite. Una carriera da brividi.
Un Mondiale, una Champions, nove Liga.
Non è un Clasico qualsiasi: è l’ultimo Clasico di Iniesta.
Il calcio spagnolo diventa all’improvviso più vuoto.
Un paio di cose che non comprendo le voglio dire.
Perché il Giro d’Italia deve partire da Gerusalemme?
E perché il Museo d’Arte Contemporaneo di Parigi organizza visite esclusive per nudisti.
Purché abbiano in tasca i soldi del biglietto. Si spera.