Intervista all’allenatore in seconda del Napoli: «Lo ha detto anche alla squadra. Ammiravo il calcio di Sarri, abbiamo trovato giocatori molto ricettivi. Con Giuntoli subito d’accordo su Fabian Ruiz»
Il figlio di
Davide Ancelotti ha 29 anni, li compirà il 22 luglio. La sera in cui il papà alzò la sua prima Coppa dei Campioni, a Barcellona, era ancora nel pancione di mamma. Adesso riveste un ruolo di grande responsabilità e porta un cognome pesante che trascina con sé illazioni e invidie: due cose che sono strettamente collegate. È l’allenatore in seconda del Napoli, la seconda squadra d’Italia scorrendo la classifica dell’ultimo campionato. E un altro Ancelotti, suo padre Carlo, è il tecnico in prima della stessa squadra.
Quando si parla di un caso del genere, è quasi inevitabile danzare su un filo sottile, sospeso tra il sospetto del “figlio d’arte” (un modo più gentile per dire “raccomandato”) e il mostro di precocità. Se non fosse che Davide Ancelotti ha una perfetta consapevolezza della sua condizione, e della sua formazione. Sa cosa gli altri pensano di lui, ma sa anche il lavoro che sta compiendo ormai da anni. Lo abbiamo incontrato all’Hotel Rosatti di Dimaro e ha esordito così: «Quando ti trascini un’eredità così importante, e oltretutto lavori con tuo padre, inizialmente sei visto con diffidenza da tutti, ti identificano come quello che vuole fare il fenomeno, dettare legge, che riveste quel ruolo solo perché è figlio di. È normale, lo so».
«Però poi – continua Davide – diventa uno stimolo, ti dà la forza per dare e voler dare di più rispetto agli altri. Per quanto mi riguarda, io cerco di cancellare ogni etichetta su di me con il lavoro, con lo studio, dando il meglio ai massimi livelli. Il mio cognome non mi pesa, piuttosto rappresenta uno stimolo. Sono l’unico allenatore in seconda conosciuto per la Serie A? Non sono d’accordo, molti miei colleghi hanno una storia importante alle spalle, da questo punto di vista non mi sento diverso».
Una vita nel calcio
Davide Ancelotti, oggi, è un professionista del calcio che è stato anche un bambino del calcio. Persino prima di nascere: «Mio padre ha vinto la Coppa dei Campioni a Barcellona, nel 1989, e mia madre stava per terminare la gravidanza. Sono nato poche settimane dopo, a luglio. Ho cominciato a seguirlo alla Reggiana, in Serie B, avevo cinque-sei anni. Per quale squadra tifo? Per me non esiste la fede calcistica, perché quando tuo padre lavora per tante squadre finisci per seguire il suo percorso. Certo il Milan per lui ha rappresentato qualcosa di più, quindi anche per me è così». Sa che la sua è una storia straordinaria, ma la racconta con assoluta normalità. Condita da educazione e consapevolezza.
Un momento dell’incontro all’Hotel Rosatti
La formazione, si diceva prima. È la certezza da cui parte il lavoro di Davide, dopo una delusione per la carriera da calciatore. Più che delusione, però, è giusto parlare di realismo: «La passione per il gioco si è tramutata in un lavoro quando mi sono accorto di non poter fare il calciatore. Sono cresciuto nel Milan, fino alla Primavera, e poi sono stato in prestito al Borgomanero. A quel punto, ho maturato la consapevolezza di non avere il mix giusto tra testa e talento, la mia mente pensava a una giocata e le gambe non rispondevano. Non sarei potuto diventare professionista, quindi ho deciso di proseguire con gli studi (scienze motorie, ndr) e di trasformare la mia passione per il calcio in un lavoro».
«Ho maturato la mia prima esperienza con il Parma, da osservatore. Sono andato in giro a seguire calciatori giovani, e nel frattempo allenavo una squadra del settore Giovanissimi. Dopo la laurea, il mio primo vero incarico è stato a Parigi. All’inizio della stagione 2012/2013, sono entrato nel settore giovanile del Psg come preparatore atletico. Insieme a me c’era Francesco Mauri l’attuale preparatore atletico del Napoli. Io e lui siamo cresciuti insieme, suo padre era il preparatore atletico del mio. A Parigi è stata un’esperienza molto formativa, difficile. Non conoscevo una parola di francese e mi hanno messo in campo con dei ragazzini che parlavano una lingua da strada, un francese da strada, tutti i giovani calciatori di quella squadra venivano dalla strada. È stata dura, però mi è servito tanto».
Da grande
Il primo incarico vero arriva al Bayern, siamo nel 2016 e la famiglia Ancelotti sbarca in Baviera dopo il triennio di Guardiola. Davide entra per la prima volta nello staff della prima squadra, è uno dei collaboratori di papà Carlo. Nelle scuole tedesche, comincia a studiare da allenatore dopo le prime esperienze come preparatore atletico: «Nell’anno che eravamo fermi, dopo Madrid, ho iniziato a studiare come allenatore. Poi ho proseguito in Germania un paese in cui c’è una formazione completamente diversa rispetto all’Italia. A Coverciano si entra per punteggi calcolati in base all’esperienza maturata nel calcio, nei centri tedeschi non c’è limite di età».
Davide Ancelotti al Bayern Monaco
È anche una questione puramente regolamentare: «Parliamo di una struttura di formazione diversa, in Italia ci sono tre patentini Uefa (A, B e Pro) mentre in Germania c’è un livello intermedio tra B e A. Io ho sostenuto l’esame per questo livello intermedio, ora mi manca solo il patentino Uefa Pro. In Italia non avrei accesso al master finale, in Germania potrei entrare. Come dicevo, è una struttura diversa: in Germania un voto alto all’esame per un patentino ti dà accesso al corso successivo, senza preclusioni anagrafiche. Non a caso, in Bundesliga ci sono tecnici come Tedesco, 32enne alla guida dello Schalke, Nagelsmann che a 30 anni allena l’Hoffenheim».
Davide Ancelotti ha gli strumenti per confrontare le due scuole: «In Germania il sistema è più rigido ma anche più meritocratico, hanno una linea chiara, seguita da tutti. Anche dal punto di vista tattico c’è una formazione unitaria per tutti gli allenatori: loro dettano le linee guida, insegnano una struttura di gioco, una lettura comune delle fasi che poi viene personalizzata dai tecnici. Per me è una buona organizzazione. In Italia la scuola di Coverciano ha principi diversi, trasmette concetti differenti, il calcio viene spiegato e insegnato in un altro modo. Anche questa è una formazione di buon livello, tanto che gli allenatori italiani restano i migliori al mondo proprio grazie a questa flessibilità, c’è più interpretazione rispetto alle nozioni che ti vengono impartite dagli istruttori».
Il Napoli
Poi, ecco il Napoli. Per Davide Ancelotti è un ritorno in Italia, dai tempi di Parma. Ci ha confessato che il capoluogo emiliano è ancora la sua città, ma tra poco si trasferirà a Napoli. E si ritroverà in una città e in un club che non sembravano accostabili ad Ancelotti senior. Anche lui è rimasto sorpreso, però in maniera diversa: «Più che altro mi ha stupito che l’abbiano chiamato. Non avevo pensato al Napoli, sinceramente. Quando poi è andato a parlare per la prima volta con la dirigenza, mi sono ricreduto, e allora la sua scelta non mi ha colto di sorpresa. Avevamo voglia di un’esperienza così, di un rapporto come quello che si è instaurato col Napoli. Un club dove regna un grande entusiasmo. Devo dire che ci troviamo veramente bene».
Il primo maggio 1988, suo padre era in campo al San Paolo, e il suo Milan cancellò il secondo scudetto del Napoli. La rivalità sarebbe durata fino al 1991, Davide Ancelotti aveva due anni e non può ricordare. Però «in questi giorni sono venute fuori delle storie molto simpatiche con Tommaso Starace il magazziniere. A quei tempi lui c’era già. Con mio padre si prendono ancora in giro, è un altro segnale che l’impatto con l’ambiente è stato ottimo».
Il calcio di Ancelotti
Da qui l’intervista si sposta più sul campo, vira su tematiche tecnico-tattiche. La prima domanda riguarda la frase pronunciata da Carlo Ancelotti in un’intervista rilasciata a Sky durante il periodo a Monaco, proprio insieme a suo figlio Davide: «Le uniche statistiche che contano sono quelle dei gol fatti e dei gol subiti». Gli chiediamo se corrisponda a verità, oppure se sia soprattutto una forzatura dialettica del papà che gioca a fare l’allenatore all’antica pur essendo stato uno degli innovatori del calcio non solo italiano. Il tecnico in seconda di Carlo Ancelotti, nonché figlio di Carlo Ancelotti, conferma questa visione delle cose e del calcio da parte del genitore: «È vero, mio padre non sta a guardare molto le statistiche. Quella frase l’ha pronunciata anche nel discorso alla squadra. Però i dati ci sono, li raccogliamo, passano tutti dallo staff. I più importanti, o meglio quelli che per noi sono importanti, arrivano a lui. C’è una selezione rispetto alla raccolta dei dati. Confermo che il numero che gli interessa di più è quello dei gol». Non a caso – aggiungiamo noi – quella frase è sulla maglietta napolista celebrativa di Ancelotti.
Nella conferenza stampa di presentazione, Carlo Ancelotti ha preannunciato una rivoluzione dolce, un approccio al gioco in continuità con quello di Sarri. Era evidente che ci fosse grande fiducia nell’organico del Napoli, e anche Davide conferma questa versione: «Credo che questo organico possa ambire ad essere una squadra completa. Ci sono giocatori di alto livello, che hanno ampi margini di miglioramento. Ricordiamo che stiamo parlando di un gruppo in grado di fare 91 punti in un campionato, e che può ancora crescere nei singoli e come squadra, che ha un futuro importante davanti a sé».
Davide Ancelotti e Simone Verdi sul campo di Carciato
Uno dei concetti che tiene a sottolineare di più riguarda la cultura tattica dei calciatori, la loro conoscenza del gioco e quindi la loro reattività agli stimoli: «Stiamo lavorando con dei professionisti molto ricettivi, lo capisci da come hanno assimilato i concetti che gli sono stati trasmessi negli ultimi tre anni. Sono calciatori evoluti, che apprendono in fretta, ce ne siamo accorti subito perché hanno saputo immedesimarsi in poco tempo nelle nuove proposte tattiche che gli abbiamo presentato e stanno cercando di metterle in pratica. Non siamo venuti a rivoluzionare tutto, questa squadra ha espresso un calcio bellissimo ed è ancora bellissimo. Quando li vedi giocare, ti accorgi subito che sono in grado di giocare molto bene. È chiaro che ci sono cose in cui possono migliorare, e stiamo cercando di lavorare in questa direzione».
Ovviamente il lavoro iniziato qui a Dimaro è di tipo migliorativo. Davide Ancelotti è sceso nel puro dettaglio tattico: «Per far crescere ancora questa squadra, l’idea è di avere un po’ più di ampiezza e di utilizzare il cambio di gioco. Il Napoli è un collettivo abituato a stare molto corto, sempre, noi vogliamo mantenere questa idea di possesso e di efficacia ma vogliamo utilizzare il campo in ampiezza. A me piaceva e piace il Napoli di Sarri, del resto è difficile trovare qualcuno che non apprezzasse questo tipo di gioco. Quando alleni questi ragazzi lo vedi che si tratta di calciatori con una certa conoscenza tattica, se fai certi esercizi noti che su di loro è stato compiuto un lavoro di grande qualità».
Il calcio, il lavoro, il futuro di Ancelotti (Davide)
Ora come ora, il clan Ancelotti è uno staff unito, che sembra credere molto nella nuova avventura. Eppure è lo stesso Davide a spiegare che ci sono momenti in cui non è d’accordo con papà Carlo: «I miei principi calcistici sono plasmati in base al pensiero di mio padre, sposo i suoi concetti. Però alcune cose non le vediamo allo stesso modo, del resto il mio lavoro consiste soprattutto in questo: devo cercare di segnalargli cosa non va. Da figlio, prima che da collaboratore, è una cosa che mi viene ancora meglio, riesco a stargli molto addosso».
Al di là dell’impronta paterna, quali sono le idee di calcio di Davide Ancelotti? E qual è il suo futuro a lungo termine? «Per me il calcio consiste in una squadra che giochi da dietro, ma che sappia fare un po’ tutto, che tenga la palla ma sappia anche utilizzare tutte le soluzioni possibili, che difenda nella metà campo degli avversari così come nella propria, che sappia usare il contropiede e dominare il gioco. In una sola parola: una squadra completa. Sarebbe l’ideale, il sogno di ogni allenatore. Da questo si deduce che non sono un integralista, penso che l’allenatore debba essere una professionista che conosca il gioco e che in base ai calciatori a disposizione trovi la migliore soluzione». In linea col pensiero di Alberto Bucci grande amico di papà Carlo.
«Il mio obiettivo – spiega Davide – è diventare allenatore in prima, non so quanto tempo mi manca per poterlo fare bene ma so che ho ancora molto da imparare. Del resto sono ancora giovane. L’esperienza è la cosa più importante, penso che oggi mio padre sia un allenatore migliore di quando ha iniziato. Non è ancora il momento, devo maturare come tecnico in seconda».
Davide Ancelotti, il padre Carlo e lo staff tecnico del Napoli
Il ritorno in Italia, però, sembra averlo convinto di come si possa lavorare meglio, nel proprio paese d’origine: «Ci troviamo bene anche per un motivo linguistico e culturale. Lavorare in italiano è un’altra cosa, è più facile trasmettere un’emozione, un concetto, spiegare un esercizio, me ne sto accorgendo ora che mi rapporto con calciatori della mia cultura che mi comprendono facilmente. Conosco altre lingue, però in italiano è diverso: quando devi fare una battuta, la fai in italiano e tutti ti capiscono; quando devi spiegare un lavoro in allenamento e preparare una riunione, ci metti meno tempo perché non devi tradurre il tuo pensiero». È un riferimento all’ultima esperienza negativa in Germania, al Bayern, dove Ancelotti è stato esonerato all’inizio del secondo anno. Per suo figlio Davide, l’avventura in Baviera è andata male anche per questi motivi di incomunicabilità.
Post scriptum: Fabian Ruiz
La chiusura dell’intervista è un piacevole retroscena su Fabian Ruiz: «Nell’ultimo anno sono stato in Spagna con la mia ragazza, lei è di Siviglia e mi sono trasferito lì. Ho visto molte volte il Betis e il Siviglia, e mi sono innamorato di Fabian Ruiz. Quando abbiamo incontrato Giuntoli, ci siamo subito ritrovati su Fabian Ruiz, sulle sue qualità. Io lo conoscevo da tempo e quindi è stato semplice concludere l’operazione». L’ultima buona notizia: Davide Ancelotti crede nel progetto Napoli, dice di trovarsi benissimo e ha “suggerito” uno degli acquisti più importanti per rinforzare la squadra. Difficile chiedere di meglio, dopotutto.