La guida tattica al Napoli 2018/2019: la rivoluzione dolce di Ancelotti, la scomparsa del demonio del possesso, la fluidità e il turn over.
Alfonso Fasano (AF): È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo seduti al nostro tavolino virtuale per parlare del Napoli di Ancelotti. Sono successe un po’ di cose, alcune le avevamo immaginate ed altre no. Di certo non abbiamo avuto modo di annoiarci, soprattutto se parliamo di tutto ciò che è accaduto in campo.
Ecco, anche per questo direi che si può fare una sorta di bilancio iniziale – so che è un ossimoro, ma il gergo giornalistico-sportivo può e sa prendersi certe licenze – rispetto ai cambiamenti tattici vissuti dal Napoli. E credo che Alessandro debba prendere subito la parola, dato che per primo – e meglio di tutti noi – ha parlato di Ancelotti come tecnico liquido. Onore al merito per la tua previsione azzeccata, caro amico. Solo che ora ti tocca spiegare un po’ di cose, alla luce dei fatti: quanto ci hai preso con questa definizione? O meglio: se il Napoli è diventato una squadra liquida, come e quanto e perché credi che sia successo?
La rivoluzione dolce
Alessandro Cappelli (AC): Che bello tornare a sedersi a questo tavolino, è sempre una piacevole sensazione. Soprattutto perché si parla di cose belle come il Napoli di Ancelotti. Quindi partirei subito con un’affermazione diretta: il Napoli è già una squadra liquida. Tra le nostre ipotesi estive, questa ha già trovato conferma dopo le prime dieci partite. Per diversi motivi.
Quello più evidente e palese, è tattico e numerico. Abbiamo visto, fin qui, una squadra che giornata dopo giornata sa cambiare modulo, interpreti e interpretazione della partita, anche all’interno dei 90’. Abbiamo visto Ancelotti modulare le situazioni di gioco in base alle necessità, anche nelle partite più importanti.
Nonostante questa prima impressione restituisca un’idea abbastanza efficace del concetto di calcio liquido, credo i meriti di Ancelotti vadano oltre. Ricordiamo com’era il Napoli quando è arrivato il tecnico di Reggiolo: squadra di sistema – quasi dogmatica – con principi saldi e per certi versi inderogabili. Fin dall’inizio, Carletto ha immaginato quella che qui sul Napolista avete definito una “rivoluzione dolce”, rendendo pienamente l’idea di un cambiamento consistente. Una metamorfosi che però tenesse saldi alcuni principi cardine del sistema (ricerca del possesso, aggressività difensiva, reparti stretti ecc.).
Fuori dalla comfort zone
Ho giusto un aneddoto che so che tornerà utile. Nei giorni scorsi ho intervistato James Spithill, uno dei pezzi pregiati del team di Luna Rossa, parliamo di uno dei migliori velisti al mondo. Tra le altre cose, nella nostra conversazione ha voluto far passare un messaggio: per migliorare, per diventare un campione, per diventare Jimmy Spithill insomma, bisogna essere ossessivi, costanti, lavorare tutti i giorni per rendere al massimo delle proprie possibilità. Ma soprattutto bisogna avere la forza mentale – una volta raggiunto il top – di mettersi alla prova in situazioni diverse, con nuove difficoltà. Bisogna uscire dalla propria comfort zone, insomma. Altrimenti ti senti comodo, arrivato, e un attimo dopo non sei più al top.
Riprendo il discorso: il lavoro di Ancelotti sta soprattutto in un cambio nel chip della squadra. Un lavoro sul piano psicologico che a portato tutti gli elementi della rosa a voler provare qualcosa di nuovo: non si tratta di quanto l’allenatore voglia ruotare moduli e uomini, ma di quanto i suoi giocatori sono disposti a seguirlo in questi cambiamenti. La rivoluzione dolce sta nell’aver convinto chi viveva nella sua comfort zone (Insigne, Allan, Callejon, Zielinski, per fare dei nomi) ad uscirne, per vedere il mondo da un’altra angolazione. È qui il passaggio da “squadra sistemica” a “squadra liquida”. Il manifesto del nuovo Napoli è la disponibilità a sperimentare, ad adattarsi. Non solo cambiare, ma saper cambiare. Perché lo si vuol fare.
Il nuovo gioco di Insigne: Juventus-Napoli 2017/2018 a sinistra, Juventus-Napoli 2018/2019 a destra
In estate ci dicevamo, in sostanza: «Ci sono i presupposti per un Napoli liquido, ma non sappiamo se la squadra sarà pronta ad accettarlo». Beh, sembra proprio che la squadra si sia resa disponibile (quindi parte del merito anche ai giocatori, che evidentemente avevano parlato con Spithill). Poi se ne facciamo un discorso di quanto e come si può migliorare, credo che ci siano margini per crescere ancora. Un po’ perché siamo a ottobre e sarebbe strano se non ci fossero; un po’ perché dobbiamo ancora scoprire il reale impatto che questa nuova impostazione avrà sui singoli giocatori sul lungo periodo.
Mi spiego: in alcuni abbiamo già visto cambiamenti fin troppo evidenti, in altri l’evoluzione è ancora in corso, ed è ovviamente legata al fatto che le sinergie tra i singoli componenti della squadra sono ancora in fase di definizione. Per questo, siamo autorizzati a pensare il Napoli possa avere (abbia?) ancora qualche altra sfumatura nel suo già “multiforme ingegno”. Ma questo ci riporta a un discorso legato ai singoli giocatori che lascerei volentieri a Charlie.
Charlie Repetto (CR): Prima di cominciare a scrivere sono andato a rileggere ciò che avevamo immaginato in estate. E non ho potuto fare a meno di notare che eravamo tutti spaventati da questa stagione. Io lo ero più di voi ma l’aria era comunque ingolfata da questo o quel dubbio: abbiamo predetto che la rosa avesse qualità inesplorate, ma eravamo intimoriti dalla possibilità che rimanessero inespresse; abbiamo predetto che Ancelotti avesse tanti strumenti per superare il sarrismo, ma eravamo scettici sulle sue capacità di farli attecchire. Sapete cosa? La qualità che più mi ha stupito di Carletto è quella di essere un buon prestigiatore prima che un grande allenatore: ha fatto funzionare tutto e nessuno ha ancora capito bene come.
È finita la tirannia del possesso
Credo che sia questa la domanda a cui dobbiamo dare una risposta oggi: come ha fatto Ancelotti a far funzionare le cose in così poco tempo? Si tratta di un quesito complicato. Perché, come al solito, è molto difficile spiegare le cose semplici. Tra i cambiamenti più evidenti di questa stagione, oltre a quelli già evidenziati da Alessandro, c’è il fatto che ci siamo finalmente liberati della tirannia del possesso. Il punto è che, negli anni scorsi, ho avuto spesso l’impressione che il possesso fosse uno dei demoni del nostro sistema di gioco. Certo, ci ha permesso di vincere molte partite. Ma in cambio ha voluto tutte le altre nostre anime.
Parlavamo di questo quando lamentavamo la scarsa capacità del Napoli di venire a capo di match nati storti, no? Chiaro che con Ancelotti non stiamo rinunciando totalmente al possesso, ci sono fasi della partita in cui è ancora il pilastro su cui si reggono la nostra pericolosità offensiva e la nostra solidità difensiva. Solo che oggi è un attrezzo nelle nostre mani, e quest’anno abbiamo già dimostrato di saper riporre quell’attrezzo in cascina ogni volta che si è dimostrato inefficace.
Per riuscire a fare tutto questo abbiamo aggiunto molte giocate al nostro cookbook: sfuggiamo al raddoppio intenso sul portatore usando il cambio gioco repentino (in opposizione al cambiare lato utilizzando Jorginho come perno); utilizziamo le qualità di calcio di Hamsik per pescare l’ala sul filo della linea difensiva (indifferentemente a destra o a sinistra, con Marek che riceve, orienta il corpo e lancia col piede opposto, tutto esteticamente molto bello); in alcuni frangenti ho visto anche delle imbucate al centro vecchia scuola. Un’arma che con Sarri avevamo un po’ accantonato.
Un esempio di gioco verticale
Per ora non ci ha portato molti frutti ma, ad esempio, con la difesa densa e attenta del Liverpool abbiamo pescato più volte Ruiz che scattava tra i centrali. Solo la sua inesperienza come incursore ci ha impedito di sbloccare prima la partita. Questa ricerca della verticalità è un segnale confortante (tra l’altro confermato dai dati statistici), perché vuol dire che Ancelotti sta cercando delle alternative ad alcuni problemi atavici che affliggevano il Napoli. Pensiamo a partite contro squadre che facevano grandissima densità a ridosso dell’area; oppure squadre molto intense nell’uno contro uno, efficaci nel pressare Jorginho e le sue soluzioni corte; o ancora squadre che praticavano lo stesso stile, ma avevano più qualità.
Queste erano tutte condizioni molto sfavorevoli in cui esercitare il possesso del Napoli. Ora, invece, vediamo qualche gameplan in più quando si tratta di affrontare matchup ostici. Una domanda retorica per chiarire cosa intendo: il Napoli dell’anno scorso avrebbe potuto palleggiare più veloce del pressing del Liverpool? Su questo ho qualche dubbio.
Allan è imbarazzante
Contemporaneamente non abbiamo abbandonato alcuni nostri colpi classici. Callejon si sta dimostrando molto utile in posizione ancelottianamente larga, eppure Insigne riesce ancora a trovarlo là sulla solita zolla. I centrocampisti e i trequartisti ora attaccano il limite dell’area e l’esterno opposto stringe molto al centro, così lo spagnolo può provare anche a metterla indietro invece che provare la conclusione da defilato. Utilizziamo ancora la pressione offensiva costante per schiacciare gli avversari. E qua mi fermo un attimo per celebrare Allan: in un centrocampo dalle posizioni leggermente meno codificate, ha la libertà di inseguire gli avversari e recuperare palla, e lui riesce a farlo con una regolarità francamente imbarazzante. Questo permette al Napoli di restare alto sul campo e mettere pressione psicologica agli avversari sulle transizioni.
Si tratta di una soluzione nuova? Sicuramente no, ma ora possiamo contare su un set di movimenti più diversificato per quanto riguarda l’attacco della profondità e questi recuperi sanno fare ancora più male. Se potessi essere cattivo nei suoi confronti (e posso farlo, perché sta vivendo un momento di forma impeccabile), gli chiederei di migliorare la gestione del pallone sul break offensivo: spesso si intestardisce in azioni da quarterback un po’ naif. Prova a sfondare con la forza delle gambe e spesso paga la sua ingenuità con una controripartenza. Non credo che debba eliminare del tutto questo suo istinto (anche perché ha una qualità sorprendente nel gioco di gambe). Solo credo che debba imparare a dosarlo con un po’ di intelligenza in più.
Difficile immaginare o trovare un’immagine più emblematica
A questo punto, dopo aver parlato di Allan e Callejon, deve necessariamente passare a quello che sta accadendo intorno ad Insigne. Facciamo così: vi dico che aspettative avevo io nei suoi confronti quest’estate, e valutiamo quante di queste aspettative si sono poi realizzate. Mi aspettavo che Insigne si trasformasse in un giocatore di hockey. Messo lì sulla trequarti, avrebbe lanciato dischetti rasoterra per imbucare compagni che poteva vedere solo lui; avrebbe chiesto palla sulla per triangolare con Mertens e infilarsi negli spazi; avrebbe calciato con personalità dalla media distanza avendo davanti tutto lo specchio della porta.
Non credo che la sua evoluzione sia andata esattamente verso la direzione che pronosticavo. Ora, Insigne è un giocatore sicuramente diverso rispetto all’anno scorso. Eppure non è un giocatore totalmente trasformato: fa la seconda punta ma è ancora attratto dal gravitare sul centrosinistra; calcia ancora dalla sua zolla; fa ancora stop impossibili e indietreggia molto per riprendere palla e guidare la transizione (ecco, questo è un fondamentale su cui credo abbia ancora da lavorare).
Contemporaneamente, però, ha aggiunto anche lui delle soluzioni nuove al repertorio: sta imparando ad attaccare la porta e sta diventando un finalizzatore migliore (imparando a sfruttare la porta nella sua interezza, apprezzando l’importanza delle soluzioni violente), in più è incisivo nei momenti complicati, suona la carica ed è carico dal punto di vista emotivo. Mi aspettavo per lui un percorso evolutivo simile a quello di Kevin De Bruyne con Guardiola. Invece, ne sta facendo uno più simile a quello di Di Natale con Guidolin. Per quanto unglamorous possa suonare, credo che questa evoluzione stia andando nella direzione giusta e che stia arrivando nel momento giusto.
Il nuovo Insigne
Penso di aver risposto, anche solo in parte, alla domanda che mi ponevo all’inizio: “come ha fatto Ancelotti a svoltare il Napoli in così poco tempo?” L’ha fatto aggiungendo strumenti nuovi ed efficaci all’interno di un sistema che non andava abbandonato, solo sistemato. Ha fornito alla squadra nuove armi e ha messo i calciatori nella condizione di poterle usarle sistematicamente. Ci ha fatto capire l’importanza del possesso liberandoci dall’ossessione del possesso. Come era quella storia? Se sai usare solo il martello, ai tuoi occhi tutto è un chiodo.
A questo punto vorrei far intervenire Alfonso perché ci sono argomenti che mi stanno ancora a cuore: tutto il discorso sul turn over e sulla fluidità dei moduli, le nostre prestazioni altalenanti quando si tratta di difendere su alcuni tipi di offensive (il cambio di fronte sulla nostra trequarti?) i nuovi acquisti e il loro processo di ambientamento, i terzini che stanno avendo tanto da lavorare. Insomma: non credo di averti lasciato a corto di argomenti.
Il Napoli completo
AF: Ancelotti ha impostato fin dall’inizio un lavoro di addizione tattica, lui e il suo staff hanno preannunciato un «Napoli completo». Noi pensavamo alla (nuova, eventuale) liquidità come un surplus rispetto al software di gioco della squadra di Sarri e in effetti è andata così, sta andando così. Solo che questi nuovi strumenti pensati da Carletto (ormai siamo in confidenza) hanno portato ad alcune modifiche che magari non ci aspettavamo. Che almeno io, francamente, non mi aspettavo. E allora, per rispondere a un po’ delle tue domande, parto da questa idea e da un altro concetto fondamentale, che Alessandro ha già introdotto: il Napoli è diventato una squadra doppiamente liquida, quindi doppiamente ancelottiana.
Mi spiego: per ogni partita, Ancelotti pensa a come cambiare il suo approccio in base alle dinamiche interne (gestione delle energie, scelte puramente tattiche) ma anche in base all’avversario. Contro il Liverpool, per esempio, abbiamo visto un abbozzo di difesa a tre in fase di costruzione. Era un accorgimento pensato per quella partita, per risalire meglio il campo e per evitare di ritrovarsi scoperti contro Mané, Salah e Firmino; nella sfida al Parma, invece, abbiamo visto un Napoli orientato al possesso. Contro il Sassuolo e contro il Torino, infine, ecco due modi diversi di attaccare in verticale. Addirittura la squadra di De Zerbi ha tenuto di più il pallone rispetto al Napoli.
Si tratta di una trasformazione enorme per un gruppo che da tempo era abituato a ragionare solo in funzione di sé stesso, con accorgimenti sostanziali ma non impattanti rispetto alle fondamenta del modello di gioco. La fine della dittatura ideologica del possesso (il pensiero di Charlie condensato in una definizione suggestiva), almeno per me, è solo una parte – seppure importante – di un processo più ampio.
Ancelotti (Carlo Hermann / Kontrolab)
Ancelotti ripete spesso che il Napoli difende come l’anno scorso. Ed è vero: terza linea composta da quattro uomini, distanze brevi, orientamento sulla palla. Anche per questo, come ha scritto Charlie, il dispositivo passivo continua a soffrire il cambio di campo in fase di difesa statica, ce ne siamo accorti a Torino contro la Juventus. È inevitabile, ogni sistema difensivo ha il suo bug e il Napoli patisce ancora questa situazione di gioco. Per evitare questo scompenso, Ancelotti sta cercando di cambiare qualcosa anche per quanto riguarda l’intensità e la frequenza del pressing: non sempre c’è grande aggressività sul portatore di palla, in alcuni momenti della partita il Napoli tende anche a ritrarsi, a difendere occupando gli spazi. Anche questa è una piccola rivoluzione.
Non sempre funziona, ma è vero anche che dal momento in cui il Napoli è passato al 4-4-2 in fase passiva – uno schieramento che rende più facile questo scivolamento – c’è stato un netto miglioramento del rendimento difensivo. Questa storica rottura rispetto al centrocampo a tre è una scelta di bilanciamento. È la chiave individuata da Ancelotti per rendere meno vulnerabile un Napoli ancora più offensivo rispetto al passato
Siamo arrivati a parlare del grande cambiamento, per quanto sapete/sappiamo che i numeri di un modulo sono una scelta di spaziatura, ciò che conta sono i principi di gioco. Però è necessario parlare del centrocampo a due per continuare a rispondere alle tue domande, tra terzini e fluidità del sistema. Proverò a non essere prolisso, ma è un processo va spiegato bene: l’idea di Carlo era (ed è) di alternare il gioco di posizione – ormai perfettamente interiorizzato nella memoria muscolare dei calciatori – con nuove soluzioni, come la ricerca dell’ampiezza su entrambi i lati, propedeutica per l’uno contro uno e per creare superiorità numerica.
Il centrocampo a quattro del Napoli in fase difensiva
Nel 4-3-3, i terzini sempre alti e le mezzali costantemente a supporto portavano a uno squilibrio evidente in fase di transizione, con soli tre uomini in posizione arretrata per fronteggiare le ripartenze avversarie. Il Napoli delle prime tre giornate ha concesso appena sei tiri in porta (per sei gol subiti), ma era una squadra evidentemente fragile quando perdeva palla. Una situazione diventata subito più ricorrente rispetto al triennio di Sarri, perché un possesso di tipo verticale è necessariamente più veloce e meno armonico, quindi porta inevitabilmente ad aumentare i rischi di errori tecnici e d misura.
Proprio per compensare questa situazione, e pure per continuare nel suo lavoro di addizione, Ancelotti ha deciso di varare il centrocampo a due, in modo da avere sempre i due centrali difensivi e il doble pivote a protezione dell’area di rigore. I terzini, come giustamente riportato, sono costretti ad un superlavoro di sostegno e ripiegamento, ma intanto hanno una sorta di assicurazione alle loro spalle. Ora, con i due centrocampisti, il Napoli viene difficilmente attaccato in campo aperto in situazione di scompenso numerico. Per dirla banalmente: con il 4-4-2 in fase di non possesso, il Napoli ha recuperato un uomo difensivo, ma allo stesso tempo può permettersi di tenere alti i terzini e ha diminuito le attribuzioni passive degli attaccanti – anche per questo l’intensità del pressing è più “controllata” rispetto al passato.
Napoli-Parma, In fase di gioco offensivo statico, la squadra si muove con una sorta di 2-2-5-1. Entrambi i terzini sono alti, mentre Fabian Ruiz e Zielinski occupano lo spazio tra i centrali e gli esterni della difesa di D’Aversa. Nel frame sopra, abbiamo evidenziato la posizione di Fabian Ruiz e Insigne. Lo spagnolo (rettangolo azzurro) è un esterno solo nominale, crea superiorità posizionale sul centrodestra e libera la fascia per Malcuit; Insigne (cerchio bianco) si muove da trequartista, sulla stessa linea di Fabian.
Con il nuovo schieramento, il Napoli ha potuto assecondare le richieste del nuovo allenatore, la sua volontà di attaccare in ampiezza. Proprio in virtù di questa idea, non sfugga che gli esterni non sono quasi mai a piede invertito, Callejon a destra, Verdi e/o Ounas a sinistra, solo Fabian Ruiz ha giocato a destra contro il Parma. Inoltre, c’è stata la metamorfosi di Insigne, diventato all’improvviso seconda punta: Charlie ha descritto perfettamente questo cambiamento, Lorenzo è impostato come attaccante ma continua a giocare con la squadra, a legare centrocampo e attacco, così da non eliminare completamente l’idea del gioco di posizione tra le linee (come vediamo nello screen di sopra).
Certo, si è perso qualcosa nella sequenzialità meccanica della manovra, il gioco è più veloce e quindi solo apparentemente più disorganizzato, ma è una precisa scelta di responsabilizzazione rispetto al talento dei giocatori. Se Ancelotti ripete spesso che questa squadra ha «enormi conoscenze» e «ottime qualità individuali», evidentemente crede in queste parole. E crede nel fatto che i calciatori possano dare il meglio anche in un sistema meno meccanico, più verticale e quindi più rischioso rispetto a quello di Sarri. Il famoso “gioco di selezione” di cui abbiamo parlato per tutta un’estate.
Una scelta politica
Continuo a rispondere alle tue domande, dicendo che questo cambiamento ha portato ad estendere la rosa anche in orizzontale. Il turn over di Ancelotti si muove scorrendo i nomi e poi verificando come e in quali slot inserirli. Se prima Ounas era considerato (giustamente) solo come esterno destro d’attacco, ora può ricoprire tre ruoli (esterno destro e sinistro di centrocampo, e sottopunta); se Fabian Ruiz è stato acquistato per fare la mezzala, oggi può essere utilizzato come interno di centrocampo oppure come mezzo esterno, a destra come a sinistra. Stesso discorso per Verdi e Maksimovic, che ovviamente vale anche per un calciatore universale come Zielinski, volendo forzare anche per lo stesso Insigne – che in alcuni momenti potrebbe tornare a giocare da esterno alto a sinistra.
Un gioco meno codificato in tutti i suoi aspetti ha degli svantaggi – come ad esempio la diminuzione di connessioni sicure in fase di primissima costruzione, l’assenza di un riferimento/regista fisso per cui far transitare il pallone -, ma permette una maggiore elasticità nelle rotazioni degli uomini, perché ruotano anche gli slot in cui posizionarli.
In questo modo, Ancelotti ha fatto una scelta politica precisa, ha assecondato le richieste del club, sta utilizzando e valorizzando tutti i calciatori del suo organico. Solo a fine stagione potremo verificare quanto questa scelta possa essere stata funzionale al raggiungimento degli obiettivi sportivi. Intanto la mission societaria è stata (già) ampiamente compiuta. Anzi, proprio a proposito di questo, lascio la palla ad Alessandro per l’unica domanda a cui non ho risposto: come procede, dal punto di vista tattico, l’inserimento dei nuovi acquisti? Nel contesto di un Napoli in fase di mutamento, cosa c’è di Malcuit, Fabian Ruiz, Verdi e magari anche dei tre nuovi portieri?
NB: chiamo sempre in causa Alessandro quando si tratta di parlare del suo feticcio Fabian. Che ci posso fare, sono troppo buono…
AC: Che bello l’assist per parlare di Fabian. Ma prima allargo l’inquadratura per una considerazione generale. L’inserimento dei nuovi – lista che al momento non comprende Meret e Younes, per ovvi motivi, e Luperto che ha giocato pochissimo – a livello tattico è in stato più avanzato di quello che mi sarei aspettato a questo punto della stagione. Però non siamo al 100%, e non siamo nemmeno vicini a questa quota. Fabian, Verdi, Malcuit, Ospina e Karnezis sono già nel pieno delle rotazioni (nessuno sotto i 200’), ma restano prevalentemente gregari. Con “gregario” intendo un giocatore che si muove in funzione dei compagni, per completare un disegno tracciato su misura di qualcun altro.
Questo svincola il discorso da qualsiasi considerazione di tipo tecnico: quando Carletto era a Madrid, Di Maria era un gregario. Non perché non fosse importante (in realtà era fondamentale,) ma perché era colui che permetteva di passare dal 4-3-3 al 4-4-2 allargandosi sulla sinistra, avendo però come stella polare Cristiano Ronaldo – che arbitrariamente decideva di iniziare l’azione da esterno o da punta. Ai tempi del Bayern un ruolo simile spettava a Vidal. Il cileno ex Juventust giocava una partita d’assalto o prudente in base a chi gli gravitava intorno a centrocampo e in attacco.
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Tra i gregari del Napoli secondo me rientra anche Callejon, per fare l’esempio di un titolarissimo, nella misura in cui il suo posizionamento in campo spesso è una conseguenza di quello di Insigne, Zielinski, Mertens. Poi lui ha un’eccellente capacità di leggere il gioco, che gli permette di trovare sempre il tempo giusto per tagliare o accentrarsi o abbassarsi in copertura a prescindere dalla posizione di partenza.
Qui torno su Fabian. Per qualità e comprensione del gioco, lo spagnolo potrebbe essere un perno attorno al quale far ruotare un’intera squadra. Nella seconda parte della scorsa stagione, al Betis, spesso era l’uomo che giocava più palloni. A Siviglia era perfetto in un centrocampo con un mediano vero (Diawara?), e un sistema disegnato per non far portare tutto il peso della regia al mediano stesso (quello del Napoli, dove la regia è un compito non un ruolo) e per farlo galleggiare lungo tutto l’half-space a fare la navetta tra il primo e l’ultimo terzo di campo. Ma per status e qualità dei compagni, al Napoli deve adattarsi a un ruolo differente, minore. Ancelotti non gli ha dato ancora la libertà che aveva al Betis (giustamente), perché la squadra aveva bisogno di trovare nuovi equilibri.
Fabian Ruiz, in Napoli-Parma
Ma per la fluidità con cui il Napoli muove il suo undici, Fabian non ha mai avuto problemi veri e propri, dimostrando di poter convivere con tutti gli altri elementi del centrocampo e dell’attacco. Ancelotti lo ha schierato praticamente ovunque, fino a trasformarlo in una specie di seconda punta in alcune azioni con il Liverpool (che Charlie ha identificato in quei momenti in cui scattava tra i centrali, nonostante non fosse proprio il suo pane quotidiano). Eppure è evidente che fin qui abbia dovuto giocare il “suo” calcio nei soli slot che gli concedeva il turn over.
Discorso simile anche per Verdi. A Bologna aveva grande libertà, dominava il palleggio e per i compagni era la prima opzione di passaggio, nonché il primo pericolo per i difensori. Nel passaggio dal Dall’Ara al San Paolo un po’ di questi privilegi si devono perdere, almeno nelle prime settimane (oltre al valore del giocatore anche c’è sempre un discorso di status da considerare).
Per il momento anche Verdi è giustamente limitato a un ruolo da comprimario (ha giocato meno della metà di Milik, Callejon, Insigne, Mertens, Zielinski), ma questo non gli ha impedito di avere un impatto significativo in azioni importanti – d’altro canto le qualità ci sono e quelle non si perdono nel trasloco – che poi è quello che ha già anticipato Alfonso quando ha detto che Ancelotti è stato bravo a valorizzare tutti gli elementi della rosa (per Verdi già un gol e un assist in campionato, in 183 minuti). Perciò è probabile che tra qualche settimana vedremo Verdi nei panni dell’attore protagonista, con i compagni pronti a creargli lo spazio per farlo calciare con il suo piede preferito. Che forse è il sinistro, ma domani potrebbe essere il destro.
Preparatevi: stiamo per parlare di Kevin Malcuit
Chi parte avvantaggiato in questo gioco dei gregari è Malcuit. Nonostante sia entrato nelle rotazioni con un po’ di ritardo a causa degli infortuni, il francese può sfruttare la sua unicità nel ruolo di terzino offensivo: banalmente, è l’unica alternativa a Hysaj (ci sarebbe anche Maksimovic per soluzioni in stile Liverpool) e la differenza di caratteristiche tra i due fa sì che la scelta cada sull’ex Lille in quelle giornate in cui Ancelotti pensa di giocare con la difesa sulla linea di metà campo a tirare assalti all’area di rigore avversaria. Del resto, il francese è un vero terzino di spinta, ma non ha idee da regista à la Ghoulam.
Malcuit, da parte sua, ha avuto il merito di farsi trovare pronto per fare quel che gli riesce meglio, prendendosi anche discrete responsabilità offensive nella partita con il Parma: ha giocato 97 palloni, di cui 8 cross (su 16 di squadra), facendo funzionare molto bene il tandem con Fabian che da destra gli faceva spazio giocando da falso esterno. Potrebbe essere solo questione di tempo, può darsi che tra qualche settimana i nuovi acquisti siano pienamente integrati – l’idea sembra quella. E allora diventerà davvero impossibile stabilire chi ha i galloni per fare il titolare e chi no.
I portieri
Mancano Ospina e Karnezis. Nessuno dei due ha qualità particolari in fatto di gioco con i piedi, non contribuiscono alla costruzione dell’azione come Reina, per fare un esempio che conosciamo bene. Se Karnezis è ormai scivolato nel ruolo che pensavamo gli spettasse – quello di secondo –, Ospina si è meritato il suo posto da titolare con altre qualità. Nelle ultime partite ha inciso davvero sul risultato, con le parate di riflesso contro il Sassuolo e le uscite fuori area contro il Liverpool.
Queste ultime, in particolare, dovrebbero essere il segnale che con la difesa si è instaurato un certo livello d’intesa e di dialogo, forse la cosa più difficile da (ri)trovare quando si cambia un portiere. Le ultime, buone prestazioni di Ospina hanno in qualche modo fatto passare in secondo piano il rientro di Meret, che prima dell’arrivo del colombiano era il titolare designato. L’ex Udinese non dovrebbe essere relegato a un ruolo marginale, ma credo che anche lui andrà incontro a un inserimento “immediato e graduale” come gli altri nuovi acquisti. Personalmente, sono stufo di questa storia che i portieri devono giocare tutte le partite altrimenti non rendono.
Ora però chiudo e lascio la parola a Charlie, chiedendogli un ragionamento di più lungo periodo. Dopo i primi mesi di “rivoluzione dolce” portata da Ancelotti, che sviluppi ti aspetti per il Napoli? Parlo del lavoro sui giocatori e sulla rosa – quindi sul campo – ma anche a livello di scelte fuori dal campo. Provo a formulare meglio la domanda. Rispetto ad altre squadre quasi-grandi d’Europa, dove collochi il Napoli, e a quale modello vorresti che si ispirasse (se ce n’è uno)?
Qualcosa in più dell’hype
CR: Ora come ora la domanda sul futuro a medio termine del Napoli è davvero ostica. Il motivo è che – lo dico mentre mi attraversa un brivido – forse per la prima volta nella storia recente il Napoli è davvero una squadra unica. Anche durante gli anni di Sarri, per dire, il Napoli è stato una squadra hype, la squadra sulla bocca dei cool kids from the block. Un’etichetta comune ad altre realtà, ad esempio il Borussia Dortmund, il Siviglia di Emery, il Celta Vigo di Berizzo, l’Hoffenheim di Nagelsmann.
Esagero se dico che i passati cinque anni sono stati un po’ il periodo indie del calcio europeo? Ora mi sembra che quell’epopea stia un po’ perdendo di vigore, che quella ingenuità sia stata un po’ infruttuosa per tutti. La new wave non è né riuscita a ribaltare le gerarchie né tantomeno a scalfirle. D’altronde era questa la malinconia che ci colse dopo l’abbandono di Sarri, no? Quella classica che arriva il primo giorno dopo la fine della rivoluzione.
La rivoluzione del karaoke
Siamo in una fase storica stramba per quanto riguarda i rapporti di forza in Europa: se è vero che l’attacco al potere della classe media si è concluso con un nulla di fatto, mi sembra che quella del Napoli sia stata la migliore reazione a quanto stava accadendo. Non ha gettato via quello che ha imparato in questi anni, ma ha provato ad abbandonare l’ingenuità portando quei concetti al livello successivo, assumendo, ad esempio, un tecnico dalla bacheca invidiabile con la specifica richiesta di tener conto dell’eredità lasciata dalla gestione precedente.
Si tratta di una mossa molto coraggiosa che non ho visto fare a nessuna delle altre squadre con le nostre stesse velleità. Il Dortmund ha affidato l’eredità di Klopp ai suoi epigoni più o meno diretti insistendo sulla strada dell’hipsteria, una scelta che ha pagato solo in parte. Il giudizio sul Siviglia può essere sicuramente falsato dall’inizio di stagione molto positivo, ma sento di poter dire che, al netto dell’exploit in Liga di questi mesi, neanche gli andalusi abbiano fatto scelte coraggiose quanto quelle del Napoli.
Il coraggio, descritto in una fotografia
Tutto questo serve a dire che questo è il futuro che auspico per la società: quello di essere la guida politica ed emotiva di una nuova classe aspirazionale del calcio. Una classe ambiziosa, coraggiosa, che si prende rischi enormi senza abbandonare il background culturale di partenza. Materialmente mi aspetto che Ancelotti possa terminare con serenità questa stagione di ambientamento e trasformazione senza particolare pressione sui risultati, nel mentre però la società deve proseguire questo percorso di crescita, a modo suo e coi suoi tempi, anche proprio a livello di ambizioni. Quindi continuare ad investire sul player trading, sui talenti, ma anche cominciare a valutare l’importanza dell’esperienza che possono portare persone del calibro di Ancelotti. Anche in campo, in termini di calciatori.
Tornando un attimo coi piedi nella fanghiglia del futuro molto più imminente (e quindi pressante), direi che a livello tattico mi aspetto una transizione definitiva al centrocampo a due. Non che sia così difficile da prevedere ma non credo che con questi uomini vedremo mai più lo schieramento che ci ha caratterizzato durante lo scorso anno e per le prime partite di questo. Semplicemente, ad oggi, non vedo come il Napoli possa rinunciare alla densità e alla schermatura data dalle due linee da quattro in fase passiva. Anche perché, per quanto il suo addio sia stata metabolizzato rapidamente, l’intelligenza in fase di posizionamento difensivo di Jorginho non ha cloni nella rosa di oggi. E resta una qualità fondamentale per sostenere il centrocampo a tre.
Il problema-Mertens
Mi aspetto anche che Ancelotti decida velocemente cosa farne di Mertens. Potrei sbagliarmi, ma ho la sensazione che tra i nostri giocatori-franchigia lui sia quello ancora più lontano dal trovare le modalità con cui esprimersi al meglio. Ovvio che non può più fare la prima punta atipica con le stesse modalità dell’anno scorso (e, a dirla tutta, anche l’anno scorso la sua lucidità sotto porta mi era sembrata meno che brillante), perché il nostro fronte d’attacco è molto meno statico, sia a livello di posizione che di composizione e lui non può allenare quei movimenti tutte le domeniche come faceva prima.
Vi ricordate Mertens durante gli anni di Benitez? La mia paura è che stia ritornando un po’ in quella sua dimensione da dodicesimo della rosa: il primo da far entrare per sfruttare il calo fisico e mentale degli avversari. Dico che è una cosa che mi spaventa perché oggi Dries non è quello di quattro anni fa: si sente al centro (giustamente) di un progetto, si sente amato e coinvolto e temo che possa un po’ soffrire il ruolo di semplice alternativa tattica.
L’ha detto Ancelotti: Udinese-Napoli (senza Insigne) è la grande occasione di Milik e Mertens
Ne abbiamo scritto proprio ieri
Mi aspetto tanto anche dal ritorno in campo di Ghoulam. Ero già convinto in estate della sua importanza come terzino ancelottiano ma guardando a questa prima parte di stagione non posso fare a meno di pensare che abbiamo bisogno urgente di lui: la sua capacità di stare largo e arrivare sul fondo, la qualità del suo piede sinistro, il suo atletismo, la capacità di dialogare con gli esterni e anche, perché no, la sua prestanza fisica… sono tutte qualità di cui abbiamo bisogno con urgenza. Sono convinto che al suo ritorno diventerà insostituibile (una parola che ora ha tutto un altro significato rispetto a prima). E a quel punto avremo le idee ancora più precise sul valore del Napoli, della sua rosa e sul gioco di Ancelotti.
A questo punto, visto che la nostra discussione si sta avviando verso la fine, posso concedermi di dire che mai come quest’anno sarebbe fondamentale per il Napoli superare i gironi di Champions League? Oltre ad essere un risultato sportivo incredibile sarebbe la certificazione del fatto che non esiste la fine della storia. Che le rivoluzioni vanno fatte ma poi anche ridimensionate. Voglio dire: quante volte avete visto fallire rivoluzioni che finiscono per prendersi così tanto sul serio che diventano parodie? Ecco, questo è un rischio che Ancelotti è riuscito a scongiurare. Ed era la cosa più importante di tutte.
Milik
AF: Sono perfettamente d’accordo con Charlie, su tutta l’ultima parte. Vado a ritroso: la qualificazione in Champions sarebbe fondamentale, anche dal punto di vista narrativo; il ritorno di Ghoulam ci darà l’esatta misura del Napoli di Ancelotti, per me quello tra Faouzi e Carletto è una sorta di matrimonio ideale, l’algerino ha delle caratteristiche uniche, è un Marcelo (in potenza) con un atletismo ancora più sviluppato. Infine, Mertens: deve capire il cambiamento, accettare le nuove condizioni, le rotazioni e come le modifiche al gioco d’attacco. Accanto a Dries, quasi fuori tempo massimo, ci metto Milik. Il discorso è puramente tattico, non psicologico come quello di Mertens. Arek ama giostrare da unica punta, accorcia benissimo la squadra per legare con i centrocampisti, sostiene in maniera elementare ma determinante la manovra. E dopo corre a riempire l’area.
In un reparto offensivo a due (quando lui è il Lewandowski, non il Milik della Polonia), le sue attribuzioni cambiano, attaccare la profondità è un’ipotesi più ricorrente, per me Arek deve imparare a ricercarla meglio, con maggiore convinzione. Ha la qualità del tiro e il fisico per pensare ad una trasformazione del suo gioco, per essere devastante anche come attaccante verticale. Che poi non vorrebbe dire dimenticare completamente la sua tendenza ad associarsi con i compagni, piuttosto dovrebbe imparare ad alternare di più le varie soluzioni. Del resto, le due giocate più belle della sua stagione – gol a parte – sono gli assist per Insigne contro la Fiorentina (trasformato) e per Callejon contro la Juventus (vanificato).
Qualità
La trasformazione voluta da Ancelotti non ha ancora contagiato Milik. O meglio: non l’ha ancora contagiato del tutto. Una sorta di paradosso, se pensiamo che il polacco è stato progressivamente alienato dal sistema codificato da Sarri nelle ultime due stagioni, tra infortuni e scarse rotazioni. Ora deve entrare in un nuovo mondo, deve iniziare un nuovo diverso, il Napoli sembra più avanti di lui nel processo di metabolizzazione del nuovo corso. Ma c’è tutto il tempo per recuperare. Secondo me, un Milik a suo agio permetterebbe ad Ancelotti di chiudere il cerchio teorico del suo calcio. Di rifinire un menu tattico definitivo, più ampio, più completo. Un dato per far capire cosa intendo: finora, il Napoli ha segnato zero gol di testa. Da qui parte il prossimo step della rivoluzione tattica firmata Carletto. Ma ne parleremo la prossima volta.