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Repubblica: «Gli arbitri non usano il Var perché non vogliono essere corretti»

L’analisi del quotidiano romano: «Il protocollo Var non è cambiato, solo che gli arbitri vogliono dimostrare di non aver bisogno di “aiutini”».

Repubblica: «Gli arbitri non usano il Var perché non vogliono essere corretti»

In realtà non è cambiato nulla

Il Var è da tempo un tema caldo, per i giornali. Dopo gli episodi controversi di Firenze e Torino, (Olsen-Simeone e il fallo di mani di Bradaric) rigori assegnati e non. Due errori, in ogni caso. Allora Repubblica analizza la situazione e ne fa una questione di vanità. Quindi, di atteggiamento da parte degli arbitri. Leggiamo: «La parola chiave è proprio questa: vanità. Dietro questo concetto si nasconde il lato oscuro della tecnologia, quello invisibile ma che rischia di procurare sul campo danni irreversibili. Il Var in sé non c’entra, anzi: il protocollo non è cambiato, il suo impiego neanche. I numeri dell’Aia dicono che l’utilizzo è sostanzialmente lo stesso della seconda parte della stagione scorsa. Ma c’è un “ma”. Che in qualche caso si sovrappone alla voglia di un arbitro di sentirsi “gratificato” dalla propria direzione: si è in effetti ingenerata la convinzione in molti direttori di gara secondo cui per dire di aver arbitrato davvero bene non devi aver ricevuto “aiutini”».

È come se fosse cambiato l’obiettivo finale: «Non è più non commettere errori, e in questo senso avere il supporto di un assistente seduto davanti alla tv con la possibilità di vedere i replay in tempo reale dovrebbe essere ritenuto da tutti un aiuto irrinunciabile. A volte però capita di farsi tradire dalla voglia di dimostrare di non averne bisogno. Il motivo è semplice: nella mente di tutti o quasi, il Var più che aiutare, “corregge”. E se c’è bisogno di una correzione, vuol dire che c’è stato un errore».

Il peso del curriculum

L’autore del pezzo (Matteo Pinci) ne fa anche una questione di curriculum: «Senza una buona esperienza il rischio di sentirsi sotto esame e di non voler dare l’idea di aver bisogno di un tutor esterno per dirigere bene una partita è un rischio sempre dietro l’angolo. Soprattutto per chi teme di non essere confermato nell’élite degli arbitri italiani o ambisce a ottenere la qualifica di internazionale. E ogni arbitro sa che un ricorso eccessivo all’assistenza video rischia di pesare quasi quanto un errore grave nelle valutazioni che portano alla graduatoria di fine stagione, comunicata a tutti i direttori di gara dopo il 30 giugno».

Sui due episodi, l’analisi di Repubblica si basa sulle convinzioni dei vertici arbitrali. Leggiamo: «Su Simeone-Olsen, credono che la revisione al monitor non sarebbe stata una scelta corretta. Perché il Var Orsato ha confermato lo stesso contatto tra attaccante e portiere che aveva convinto l’arbitro Banti a fischiare il rigore. Se pure avesse dato un’interpretazione diversa del gesto rispetto al collega in campo, non sarebbe stato abbastanza per suggerire al collega di correre a bordo campo per rivedere le immagini. Discorso diverso invece per la direzione di Mariani, in Juventus-Cagliari: il fallo di mano di Bradaric lui, che era a un metro, l’aveva interpretato subito come un tocco di spalla. Il monitor avrebbe dovuto dargli elementi sufficienti per dubitare seriamente della propria percezione – eufemismo – ma lui è rimasto della propria idea. Convinto forse che i dubbi fossero tali da non giustificare una riforma della decisione presa. Insomma, la paura di dire “ho sbagliato” può averlo tradito».

Il problema della discrezionalità

Il punto finale, focale, dell’articolo, riguarda le aspettative rispetto al Var, «diventate altissime dopo il Mondiale». Per cui la tecnologia «non potrà cancellare ogni errore: può ridurre la possibilità di sbagliare. Nelle mani dell’arbitro resterà sempre una fetta di discrezionalità. E il rischio di finir vittima della vanità».

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