Lo spagnolo parla a Sky della sua carriera: «Volevo andare al Barcellona, poi sono stato orgoglioso di Napoli. Al Milan la storia non basta.
Signore del calcio
Un signore del calcio. E Sky ha dedicato a Pepe Reina una intervista che andrà in onda sabato 26 gennaio, alle ore 23.30 su Sky Sport Uno. Napoli nel cuore. Eppure il primo passaggio in azzurro non fu proprio tutte rose e fiori.
Al Napoli preferivo il Barcellona
«La scelta di andare a Napoli è stata un po’ forzata – racconta Reina – Prima di quell’estate sono stato vicinissimo al Barcellona. Avevo chiesto a Brendan Rodgers, all’epoca allenatore del Liverpool, di darmi una mano se fosse arrivato il Barcellona. Non volevo ascoltare nessun’altra offerta, avevo semplicemente voglia di rientrare a casa mia, a Barcellona, e togliermi qualche sassolino per dimostrare il mio valore. Il Liverpool poi si era tutelato acquistando Mignolet e avevano deciso di mandarmi via in prestito».
Orgoglioso di aver difeso l’azzurro
Ma le cose non sono andate così ed è arrivato il Napoli. «Sono stato orgogliosissimo di aver difeso la porta del Napoli, mi sono divertito tantissimo. Lì hanno un pubblico incredibile, di vero cuore, e una squadra che anno dopo anno ha fatto sempre meglio. Ogni anno in campionato ci siamo migliorati; il primo anno abbiamo vinto la Coppa Italia con Rafa (Benitez), e poi in campionato con Sarri, negli anni successivi; non solo si faceva un calcio spettacolare, ma anche competitivo».
Giocare ad Anfield è una goduria
«La Premier è il campionato più bello. È quello in cui mi sono divertito di più, quello sicuramente più competitivo in questi giorni. Diritti tv e storie varie rendono il calcio inglese il più competitivo di tutti. Sicuramente è stato il momento sportivo più bello, il picco più alto della mia carriera. Eravamo una squadra competitiva, che lottava per ogni traguardo e che arrivava fino in fondo a ogni competizione. E poi un pubblico, un’atmosfera che ti faceva essere felice. Giocare ad Anfield ogni 15 gironi era assolutamente una goduria come calciatore e noi ci sentivamo più forti quando si giocava lì perché a volte sembrava che lo stadio fosse in salita per gli altri e in discesa per noi. Quando vai in porta e vedi la Kop cantare all’unisono “You’ll never walk alone”, ti vengono i brividi. Se sei un romantico del calcio, come lo sono io, questo sentimento viene accentuato di più in questi momenti. Ti fanno credere nelle tue possibilità, anche in un momento brutto o dopo una sconfitta, ti danno la forza per andare in campo e dare il massimo. Il 15 aprile ce l’abbiamo segnato tutti in mente. Quelle catastrofi hanno fatto del Liverpool una famiglia; una famiglia con dei sani valori, con un senso di appartenenza molto grande. Poi in Inghilterra sono anche un po’ mitomani e questo penso sia dovuto al legame per le tradizioni, ai giocatori che sono state delle leggende, per quella maglia, che fanno sentire questo senso di appartenenza ancora più stretto».
Il Milan è la storia ma non basta
«La storia del Milan pesa. Pesa perché ha fatto sempre bene, ma oggi la realtà sportiva è un’altra e tocca a noi portare il Milan dove merita di essere. Bisogna lavorare sodo per poter vedere tante altre nuove foto e rifare ancora una volta la storia del Milan. Sicuramente. non aver vinto la Premier con il Liverpool in 8 anni è una ferita che brucia, però la Champions del 2007 brucia di più. L’hanno vinta altri (sorridendo e riferendosi al Milan, ndr) e ora mi fa piacere. La differenza rispetto al 2005, dove io non c’ero, è che il Milan quella finale l’aveva dominata ma persa, mentre noi (Liverpool, ndr) nel 2007 abbiamo giocato meglio e abbiamo perso. Ora che sono al Milan mi fa anche ridere, però, all’epoca, quando ho visto Maldini con quella coppa in mano mi ha fatto male».