“Cafarnao – caos e miracoli” a Cannes ha ricevuto proprio l’ambitissimo riconoscimento della giuria tecnica ed anche il Cesar 2018.
“Cafarnao – caos e miracoli” è il film che più di tutti ha convinto le giurie dei premi di tutto il mondo nel 2018 come nel 2019: a Cannes ha ricevuto proprio l’ambitissimo riconoscimento della giuria tecnica ed anche il Cesar 2018.
Perché l’opera di Nadine Labaki ha stregato i selezionatori di tutto il mondo? Perché racconta una parte di umanità che non interessa a nessuno perché non e in essere. Libano. Beirut vista da un drone o camminata per le strade è un’immensa Cafarnao. Qui sopravvivono in un’economia concentrazionaria centinaia di migliaia di persone (?). Zain (Zain El Hajj) è un bambino di dodici anni figlio di due ectoplasmi genitoriali che vive in una stanza affittata dal proprietario di un bazar Assadd. Tra i molti fratellini ha a cuore soprattutto la sorella, l’undicenne Sahar (Cadra Izam), che è nelle mire sessuali di Assadd. I genitori vendono la sorella ad Assadd e Zain scappa vivendo in cattività prima di essere accolto dalla ragazza-madre Rahil (l’etiope Yordanos Shiferaw) che fa le pulizie e la lavapiatti per sostenere il figlio Yonas (altro ectoplasma senza documenti). Un altro commerciante Aspro è a capo di una rete di traffici di clandestini e vorrebbe Yonas in cambio di un passaporto per Zain per la Svezia come falso siriano. Rahil viene arrestata, Yonas è nelle mani di Aspro e Zain nel tentativo di procurarsi uno straccio di documento per partire viene a sapere che la sorella Sahar è morta per parto. Preso un coltellaccio uccide Assadd e viene condannato a cinque anni. É dalla prigione che ha l’dea di coinvolgere la trasmissione tv “Vento di libertà” con la proposta di denunciare i suoi genitori per averlo fatto nascere. É da questo momento del processo che il film ha origine narrativamente retrodatando le sue azioni come in una cognizione giurisdizionale. C’è un mondo di persone che vive sotterraneo: non sono uomini (“voglio un documento che attesti che sei un essere umano” dice Aspro in una scena cruciale del film), ma “parassiti”, a detta del padre di Zain. Nel processo – l’avvocato difensore di Zain è interpretato dalla stessa regista Labaki – c’è molto Kafka: in realtà il giudice processa il nulla perché là davanti non ci sono neanche soggetti di diritto. Sembra invece di assistere al giudizio di un sinedrio pieno di sensi di colpa. Il vincitore di quel processo al di là delle vicende finali del film che tacciamo è Zain: la sua dignità – unità al coraggio figlio dell’orgoglio – riesce ad indirizzare la realtà. Ora Zain – o chi per lui – è visibile nella sua identità, non solo anagrafica.