Basta trattare i tifosi come bambini o peggio. Basta con la favola del calcio. La politica industriale vale più delle bandiere. Anche nel caso Insigne
Lewandowski
A gennaio dell’anno 2014 Karl Heinze Rummenigge annuncia che a fine stagione Robert Lewandowski, il fuoriclasse del Borussia Dortmund, passerà al Bayern Monaco. A parametro zero. Ossia senza che il Dortmund incassi un euro. Pochi mesi prima, Lewandowski aveva sfidato – e perso – il Bayern in finale di Champions. Li aveva però battuti nella supercoppa di Germania e in tante altre occasioni (due campionati consecutivi vinti). A Dortmund qualcuno non gradì. Ma oltre un’alzata di spalle e magari qualche focolaio di civile contestazione non si andò.
La cessione di un calciatore non c’entra nulla col tradimento. Il Borussia Dortmund, quel Borussia Dortmund, era peraltro giunto a fine ciclo. Di lì a un anno sarebbe andato via anche il suo profeta: Jurgen Klopp.
I periodi, i cicli, finiscono. Chissà perché in Italia, e quindi anche a Napoli, tutto debba avvenire in modo esasperato. Non è solo Napoli. Basta ricordare cosa accadde nella Roma laziale quando si diffuse la notizia che Beppe Signori sarebbe finito al Parma. O nella Milano rossonera quando fu annunciata la cessione di Kakà.
Il tifo non crede nella politica industriale
L’Italia del tifo non crede nella programmazione. È ancorata al passato. È convinta che nulla sia ripetibile, che tutto sia frutto solo e soltanto del talento dei calciatori. Non crede nella politica economica. Non sa che cosa sia la politica industriale di un club.
A Napoli c’è ancora chi – ebbro di ignoranza calcistica – è convinto che con Higuain chissà cosa si sarebbe vinto. E a nulla vale mostrare la fine che ha fatto Gonzalo ormai alla deriva persino col suo maestro Maurizio Sarri.
È il bello del calcio, dice qualcuno. La cecità viene scambiata per bellezza. Piace l’idolatria senza conoscenza. Il rito pagano.
Anche i club partecipano a questo rito, a questo delirio collettivo. L’unico club che prova a dissociarsene, con discreto successo peraltro, è la Juventus. Non a caso il club più vincente d’Italia. Che recide cordoni ombelicale con apparente spietatezza. In realtà con lucido realismo. E soprattutto – aspetto che nessuno mette mai in luce – per attaccamento ai propri colori. È per amore della Juventus che si dice addio a Del Piero e si dà la numero dieci a Carlos Tevez. È per amore della Juventus che si dà un calcio a Higuain – perdente di successo – per prendere Cristiano Ronaldo.
Viva i Mino Raiola del calcio
Il calcio non guarda mai avanti. E si bea di non farlo. E proprio non si capisce perché l’eventuale partenza di Insigne dal Napoli debba assomigliare a uno psicodramma. Non potrebbe essere l’unione di due o tre interessi? Quello del calciatore e quelli della società e dell’allenatore? Potrebbe non accadere ma se dovesse accadere non sarebbe mica un dramma. A differenza del Dortmund con Lewandowski, il Napoli ne ricaverebbe anche un congruo indennizzo. Grazie a Mino Raiola tra l’altro. Il presunto cattivo che invece altro non è che l’Harvey Keitel di Pulp Fiction. È mister Wolf, risolve problemi, mette tutti d’accordo. E lo fa con la forza del denaro.
Però in questo gioco c’è bisogno che qualcuno cominci seriamente a fare l’adulto e a dire le cose come stanno. Ai tifosi bisogna raccontare anche la verità. Se li si continua a trattare come idioti, poi non ci si può lamentare che si comportano sempre da bambini.
E ma si perde la magia del calcio… Ancora con la magia. Se credete alla magia, sono problemi vostri.