Il caso De Rossi. È guerra tifosi-società. Cuore contro conti. Aziendalisti contro identitari. Il parallelo con il Napoli balza agli occhi
I siti delle radio tifose sono andati tutti in tilt ieri, lo streaming non funzionava, i centralini ingolfati di chiamate, i social inondati dal dolore e dall’indignazione. Il popolo piange, i giornali parlano dello “squarcio nel cuore dei romanisti” e, come si dice a Roma, “le chiacchiere stanno a zero”: Daniele De Rossi è stato messo alla porta dalla società. “Capitan Passato”, lo definisce oggi una penna avvelenata, lui che era “Capitan Futuro”. E stasera potrebbe scendere non un velo di tristezza, ma il lutto sul cuore giallorosso: se la Lazio dovesse vincere la coppa Italia contro l’Atalanta, la squadra allenata dall’uomo che l’anno prossimo potrebbe essere sulla panchina della Roma, Gian Piero Gasperini.
È guerra tifosi-società. Cuore contro conti. Aziendalisti contro identitari. È la società che fa fuori i “senatori” e i tifosi che parlano di “fine della Roma”. No, non è Napoli. Succede anche a Roma, come cominciò a succedere a Torino con il caso Del Piero, se l’Azienda non avesse, come sempre, vinto e convinto tutti in casa Juventus. Non è cominciata ieri, va avanti da quando “l’Americano” ha comprato la Roma, da quando i secondi posti sono diventati terzi, da quando la necessità di recuperare sui debiti ha costretto la società a vendere giocatori su giocatori. Non i Primavera, ma atleti come Alisson e Pianic, per citare due nomi, ma l’elenco è molto più lungo. Il fallimento, virtuale anche se non ancora effettivo, del progetto stadio, ha fatto dilagare il conflitto. L’Americano, dopo quasi dieci anni, non parla ancora italiano, dirige da Boston o meglio da Londra, attraverso il “Convitato di Pietra”, Franco Baldini, forse l’uomo più odiato in città. Pallotta non si finge tifoso, parla di soldi, di brand, di cose. E i romanisti lo odiano, dimenticando felici che l’Americano ha raccolto una società ad un passo dall’abisso finanziario e ne ha fatto una delle società leader in Italia.
Da non dimenticare: è in questa gestione che Francesco Totti viene allontanato dal campo e inserito in un ruolo gestionale inesistente e privo di ogni potere, dopo una sera d’addio che ha commosso tutti quelli che un cuore in petto ce l’hanno. In questa gestione le uscite sono state rimpiazzate da nomi insufficienti: certo, saranno solo tifosi incazzati, ma se metti Olsen al posto di Alisson un po’ di casino lo hai fatto.
Oggi, da Rete Sport, la radio più autorevole del tifo invocano il Capitano, che se ne vada, che faccia cadere il velo che copre una gestione “scandalosa”, dove a guadagnare è soltanto uno (suona familiare? a me sì).
“Da ieri la Roma chiamiamola azienda” lamenta alla radio Ugo Trani, uno dei massimi inviati che seguono la squadra, lavora per il Messaggero da più di trent’anni. Le parole per i dirigenti e per i giornalisti che non dissentono dall’azienda non sono leggere: “Magliari”, per stare a quella più educata. Insomma, manca pappone, e poi sarebbe un calco perfetto della situazione Napoli. Ma di fatto il calco c’è. Piaccia o non piaccia a noi o ai romanisti, siamo da sempre cuori paralleli, con temi e motivi di rimpianto e protesta quasi sovrapponibili. Perché di fatto condividiamo con la Roma, ed altre squadre, un destino, oltre che l’amore per le nostre identità e le nostre bandiere.
Puoi infatti, come fa un filone del tifo, inveire contro Gasperini, che secondo alcuni avrebbe chiesto di far fuori De Rossi – notizia che non è tale, perché la voce è del tutto non verificata, ma è uno di quei “guesswork”, dei lavori di immaginazione che fanno quasi tutta l’informazione sportiva. Puoi arrivare a rimpiangere Conte (pure questo succede), che ha rifiutato l’offerta della Roma, mettendo Totti in difficoltà che era il suo sponsor interno. Poi ci sono le parole di De Rossi ieri, una conferenza stampa dove le espressioni pesanti per la società non sono state risparmiate, Capitan Futuro parla inglese e ha lingua assai più raffinata di Totti. Ieri non si è fatto pregare.
Quindi la Roma giallorossa è in fiamme. E potremmo finirla qui, se non fosse che il parallelo con noi continua ad essere impressionante, compresa l’ossessione del “non si vince”, che hanno loro come ce l’abbiamo noi – a proposito, nessun più dei romanisti in queste ore tifa Napoli, “fermateci l’Inter”.
E allora uno finisce col chiederselo: ma non sarà che queste crisi parallele, con questa tragedie del calcio cuore e bandiera lacerato dal prevalere del calcio dove ci sono azienda e clienti, dove se non hai lo stadio sei un disperato, non è che tutta questo tormento potrebbe essere chiamato con un nome più breve? È l’effetto Juventus, che avendo tolto storia agli ultimi campionati, se si eccettua il ‘17/’18 di Sarri, schiaccia tutto il resto del mercato in una condizione di minorità. E’ il paradosso del calcio industria, che nell’esempio inglese funziona alla perfezione, e se vogliamo anche in quello spagnolo, invece da noi, fra ritardatari e ritardati, fra industriali che maneggiano il potere come il pongo ed esclusi di rango che possono solo pensare all’anno prossimo, spacca e distrugge il calcio “storico”, senza creare le condizioni che permettano a quello nuovo di prosperare. E’ un bel casino, ma rendersi conto che siamo tutti nella stessa barca e non è quindi una questione di papponi e romani o di amerikani cattivi, sarebbe già un gran passo avanti. Come si fa a conciliare Industria e Cuore? Perché si può. A Liverpool l’identità ce l’hanno, no? E c’hanno pure l’industria