Intervista all’antropologo, tra i fondatori del Te Diegum. Il “meritiamo di più” è una forma di vittimismo. De Laurentiis non è simpatico, ma funziona. Napoli è migliorata tanto
Marino Niola è un antropologo della contemporaneità, scrittore ed editorialista. È stato tra i fondatori del Te Diegum, la chiesa laica e intellettuale nata per santificare il sinistro di Maradona. Rispondendo a Sacchi, qualche mese fa disse che Sarri era riuscito, a Napoli, nell’impresa più difficile: “allenare il pressing”, cosa a cui al Sud non siamo abituati. Pur avendo amato molto l’ex allenatore, pensa che Ancelotti potrà portare benefici molto più grandi al Napoli.
Con lui abbiamo parlato di questo, della gestione De Laurentiis e delle contestazioni dei tifosi e anche della città.
Perché De Laurentiis, a Napoli, è tanto odiato?
«Sicuramente fa di tutto per non essere simpatico. Credo non se lo proponga nemmeno, che il suo core business non sia la simpatia ma l’efficacia imprenditoriale. E, su quel piano, i fatti non possono che dargli ragione. Ha rilevato qualcosa che non era nemmeno più una società, ma una larva, un cadavere, lo ha rianimato e l’ha portato a diventare una delle squadre più importanti d’Italia, con un posto di tutto rispetto in Europa. Da questo punto di vista ha ragione lui, i risultati sono innegabili. Non appartiene alla tipologia di presidenti tifosi a cui siamo abituati, che si rovinano per le squadre. Ragiona da imprenditore, tiene sempre il bilancio al primo posto e l’idea che la squadra, come tutte le aziende, debba essere attiva e funzionare. Comprare giocatori a prezzi bassi e poi rivenderli a prezzi maggiorati, come ha fatto con Cavani o con Higuain, sicuramente è un ottimo score imprenditoriale. Ma i tifosi, che non ragionano solo in termini di bilanci, ma di cuore, passioni ed emozioni, vorrebbero altro: a loro non basta l’azienda in attivo».
Eppure dovrebbero bastare i successi raggiunti e una stagione tutt’altro che fallimentare, no?
«Sì. Ma quando ci si abitua a stare sempre ai primi posti si vorrebbe vincere. Una volta l’idea di un secondo o un terzo posto sembrava un’utopia, adesso ci si è abituati e si vorrebbe sempre di più».
Nel suscitare tutta questa antipatia, c’entra qualcosa il fatto che il presidente non sia napoletano?
«Sì, può contare qualcosa, ma non credo sia solo questo. Del resto non necessariamente uno deve essere profeta in patria: veda il caso di Insigne. Forse un napoletano capirebbe meglio gli umori, saprebbe leggerli meglio. De Laurentiis, invece, più che leggere gli umori li vorrebbe correggere e niente dà fastidio ai napoletani quanto l’essere corretti».
Secondo lei ci sono analogie tra la contestazione a De Laurentiis e quella a Ferlaino, con le bombe sotto casa?
«È una contestazione diversa. Quella a Ferlaino veniva dopo tre stagioni esaltanti. Gli anni di Maradona sono stati una specie di droga, un’esaltazione continua. In quegli anni il Napoli ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, mentre ora vive secondo le sue possibilità. Questa viene vista come una cosa negativa, perché vivere al di sopra delle proprie possibilità è comodo, ma poi, improvvisamente, arrivano i conti, come successe con Ferlaino».
Il fatto di meritare di più, di pretendere, è qualcosa di tipicamente napoletano?
«Diciamo che è una cosa abbastanza diffusa nei meridionali, non solo nei napoletani: una sorta di vittimismo, perché si pensa di avere sempre meno di quello che si meriterebbe. In generale, i tifosi sono delle bestie strane: proprio perché li spinge la passione, è più difficile che siano lucidi e sereni. Gli striscioni comparsi in città sono qualcosa di viscerale che ad un certo punto scoppia. Probabilmente c’è un’incompatibilità con un’idea, un modello di società calcistica. Tra un’idea che può apparire come arida e fredda, basata solo sulle cifre e sui bilanci, come quella di De Laurentiis, e un’idea dove invece prevalgono la passione, il cuore e il desiderio straripante di vincere a qualunque costo. Mentre, nel caso di De Laurentiis, la questione del costo si pone sempre».
Un’idea di società calcistica considerata talmente incompatibile che si contesta anche Ancelotti perché visto come un’aziendalista…
«Contestare Ancelotti come successo in questi giorni mi sembra un atteggiamento quasi suicida. È uno dei più grandi tecnici degli ultimi 50 anni. Ha vinto tutto, ha vinto dovunque ed è assurdo che venga contestato da persone che ancora non hanno dato conto di sé. Uno deve prima dimostrare di essere un atleta e una persona completa. Prima di fare questo, secondo me non ha neanche il diritto di parlare. Prendersela con Ancelotti, quindi, mi sembra proprio un tiro in porta completamente sbagliato. Questo allenatore è un punto di forza anche per la costruzione della società, per le idee e le relazioni che può avere. Io ho amato molto Sarri, intendiamoci, ma Sarri era una persona bravissima, con delle buone idee, ma senza relazioni che sono ciò che conta. Forse sarà sfuggito a molti che oggi si arrabbiano, ma gli acquisti migliori il Napoli li ha realizzati quando aveva allenatori che avevano un grande prestigio internazionale. È stato così per Benitez e può essere così per Ancelotti. Una persona, per quanto brava, se isolata, non riuscirà mai ad avere quelle relazioni indispensabili che servono ad entrare in certe reti, a convincere i giocatori più prestigiosi. Si ragiona troppo in termini locali, mentre il calcio, oggi, è un fenomeno globale. Ancelotti è un uomo che sta dentro le reti globali e bisognerebbe tenerselo caro».
C’è da preoccuparsi che le contestazioni allontanino lui e altri come Callejon? La città non ha poi questo grande appeal, a leggere anche l’intervista al direttore del CorMez, Enzo d’Errico, che anche della Napoli turistica dice che è una favola che ci raccontiamo ma che la realtà è più complessa…
«La vedo in maniera un po’ diversa. Sappiamo benissimo come si colloca Napoli in certe classifiche, però che ci sia un’ondata turistica cui non eravamo abituati non c’è dubbio, bisogna essere ciechi per non vederlo. Il problema è come gestire questo turismo, cosa farne e in cosa trasformarlo. C’è anche da dire, però, che il fenomeno è abbastanza iniziale. Ma basta passeggiare al centro per vedere quante case sono state ristrutturate e trasformate in B&B, quante attività nuove ci sono, quanti alberghi. Napoli in pochi anni si è proposta tra le città turistiche e prima non lo era. Non dobbiamo dimenticare che, fino a dieci anni fa, il lungomare di Napoli, la sera, era uno spettacolo di una malinconia quasi tragica, da suicidarsi. Invece adesso, potrà non piacere, però è una serie continua di attività. È comunque meglio quello che c’è adesso. Poi si cercherà di migliorare».
Anche se è uno sviluppo spontaneo e non gestito dall’alto?
«In questo momento la città è molto autogestita, anche sul piano politico si ha l’idea di una città non governata, che si autogoverna. Ciò nonostante, accanto a questi segnali oggettivi, ci sono anche dei segnali positivi. La città si arrangia con le proprie forze, come ha sempre fatto».
Lei è tra i fondatori del Te Diegum. Com’è cambiato il calcio da quando l’avete ideato?
«Moltissimo. È diventato un fenomeno economico-finanziario globale. Al tempo del Te Diegum la vendita dei diritti televisivi non aveva il ruolo che ha adesso, tanto è vero che i migliori calciatori venivano in Italia e in Spagna. Adesso in Spagna continuano ad andarci, ma vanno in Inghilterra o Germania perché quei paesi hanno saputo compiere la trasformazione economico-finanziaria che De Laurentiis vorrebbe compiere qui. Quando parliamo del Bayern, del Barcellona o del Real Madrid (in misura minore, perché ha una storia diversa dal Barcellona) stiamo parlando di grandi aziende. Anche la Juventus lo è. In realtà la Juventus vince perché è un’azienda che è una miniera d’oro per la città. Quando vado a Torino, i tassisti – che in maggior parte sono torinisti – dicono che per loro la Juve è una fortuna per quello che arriva in termini di flusso turistico e vendite. Io credo che De Laurentiis abbia in mente un modello di questo tipo. Che poi lo attui velocemente o meno, questo è un altro discorso. Il modello in sé, però, non è sbagliato».
È un modello che è difficile che attecchisca qui?
«In quel caso la colpa non è di De Laurentiis, ma della città».
Nella contestazione al presidente, quanto conta il fatto che lui abbia rotto i ponti con il mondo del tifo organizzato?
«Per quel poco che ne so, conta. De Laurentiis tenta di governare in una città in cui niente è governato: è un impatto duro. D’altra parte è anche ora che qualche presidente, in Italia, metta un freno e delimiti i poteri e gli spazi degli ultràs, che hanno tutto il diritto di fare quello che fanno allo stadio, ma fuori no. Viviamo in un paese dove molto spesso, la domenica, milioni di cittadini sono in mano a frange di ultràs e questa è una cosa vergognosa. Vergognoso e a volte incomprensibile è persino l’atteggiamento delle forze dell’ordine che li lasciano fare. Anche in questo non c’è che da stare con il presidente».
Le interviste del Napolista sullo stesso tema:
Intervista a Angelo Carotenuto
Intervista a Francesco Patierno