La squadra del Napoli non appartiene ai residenti. Il calcio non ha cittadinanza, è dell’uomo. La gestione di De Laurentiis è pacchiana ma laica
Vivo lontano dall’Italia da undici anni. Immagino, superati i quaranta, di essere in quella fase dell’esistenza nella quale ti accorgi che non ci sarà nessun luogo del mondo nel quale sentirsi a proprio agio o che considererai il tuo, incluso quello stampato sul passaporto. È il tempo in cui in nessuna città ci si sente cittadini ed in quasi ogni luogo è presente una componente sostanziale di estraneità, che pesa come un’ombra e al contempo dà gusto e non dispiace.
A questa estirpazione della cittadinanza – un po’ letteraria e un po’ vera – ha fatto da contraltare nella mia vita un nuovo senso di appartenenza al pianeta terra. Una condivisione del nostro stato di uomini: la passione per la squadra del Napoli, che ci unisce come la ginestra di Leopardi.
La passione per questa storia collettiva ha smarrito da molto tempo qualunque connotato locale. Mi fanno francamente sorridere quasi tutte le analisi antropologiche, storiche, sociali e politiche sul “tifo della città”. Quale città, di grazia? Chi vi ha fatto pensare, chi vi ha convinti che la squadra del Napoli appartenga a voi residenti? Chi vi ha fatto pensare che la ginestra abiti una terra specifica?
Dove non è ancora arrivata la politica, infatti – da sempre persa nelle lungaggini delle logiche di consenso – il calcio è già giunto molti anni fa, mentre molti si guardavano gli alluci. Così, nel tempo in cui c’è chi ancora si occupa dei sovranismi economici e politici, il gioco del pallone, tanto criticato dalle reprimenda dei benpensanti e dei parrucconi, ha già fatto il salto.
Nel calcio esiste ius soli da decenni: il suo suolo è l’animo o, meglio, quello che i greci con Sofocle chiamavano deinos, la forza meravigliosa e terribile che è l’uomo. Chiunque sceglie di far nascere la pianura del proprio amore dove meglio crede, i colori di questo sport hanno porti perennemente aperti. I muri, le case, le strade non racchiudono nessun sentimento. Dinanzi a questo teatro vasto e travolgente che è il calcio diventano polvere. Crolla tutto, scompare Notre Dame dalla sera alla mattina ma non scompaiono il gioco ed il suo racconto. Non scompaiono le lacrime e la pelota che vagano senza fretta ma senza pausa.
Dopo i quaranta e con la maggior parte della vita su un mezzo di trasporto – condiviso con molti espatriati e spiantati come me – ho capito che Napoli non esiste. Non esiste il tifoso, né organizzato né disorganizzato. Ed è da pazzi parlarne, come da pazzi è credersi ministri difensori della sicurezza e vestire le felpe da selfie. Ciascuno finge di stringere in qualche frase la realtà ma non fa altro che riportare in vita i propri ricordi e assolutizzarli con un atto perentorio e violento del tutto simile a quello religioso. Napoli è una città di un milione di papi.
Il racconto che Napoli fa di sé ha, infatti, moltissimo delle meccaniche religiose dei monoteismi più impenetrabili: un sinedrio di saggi che ci racconta cosa sia o non sia giusto e come si sia persa la purezza dei proto-napoletani ed i costumi siano avviati alla rovina; la localizzazione del rito e la definizione di una terra sacra che va difesa e rispettata; l’esclusività della rivelazione e della grazia che baciano solo i fortunati e gli eletti, per nessun motivo logico; la lotta cruenta contro qualunque tentativo di scisma; l’impossibilità di comunicare il culto all’esterno; la coltivazione del mistero.
Come per tutte le religioni, il trucco c’è ed è che il dio non esiste. Per questo lo stadio di Napoli si svuota, come le chiese. E come nelle chiese, allo stadio ci finiscono i bambini per la prima comunione e i vecchi che temono di morire, mentre la fascia dai tredici agli ottant’anni se ne sta a casa a definirsi credente non praticante – o in sciopero del tifo, o “né col tifo né col presidente”, come preferite.
La gestione di De Laurentiis è pacchiana ma laica. È in quanto ancora non è accaduto, ossia nel futuro. Guarda e sorride a noi, amanti di questa squadra, nel mondo. Con un po’ di egoismo dico che mi va bene e spero continui, perché sui treni, gli aerei, le auto, le navi in giro per il pianeta, Napoli continua a non esistere ma almeno a suggerire un filo di carne e sangue da vivere. È una scelta e non un orgoglio, richiede un po’ di fegato e non trasuda per magia dalle mura di alcun luogo sacro. Quindi, cari amici, mollate l’osso, perché nulla ci e vi appartiene.
C’è voluto Nietzsche all’inizio del secolo scorso per dire che dio era morto e le chiese erano la sua tomba.
Non so chi si prenderà la briga di compiere il medesimo coraggioso oltraggio dalle nostre parti, ma la sostanza è che Napoli è morta ed il San Paolo è il suo sepolcro. Ed è una bella notizia perché ci stiamo muovendo verso un domani ignoto e nuovo. Fatto per chi non ha troppa paura.