Intervista al direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro e del Museo Filangieri: “Ricordo Napoli-City con mia figlia. Non concepisco il professionismo del tifo. Adl è un ottimo imprenditore e ha capito che il calcio si sta evolvendo. A Napoli avviata una rivoluzione dal basso, l’unica possibile”
Paolo Jorio è il direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro e del Museo Filangieri. La sua storia è densa e ricca di identità partenopea. Giornalista, regista, conduttore radiofonico, curatore di pubblicazioni artistiche, romanziere, ha lavorato alla Rai firmando programmi come ‘Radiodue 3131’ e ‘La topolino amaranto’ e poi anche alla Bbc. Proprio per l’emittente britannica fu inviato a Napoli a girare un documentario su San Gennaro e, folgorato da una storia che non conosceva a fondo, decise di tornare in città.
Fa parte della tifoseria educata e silenziosa a cui fa cenno Davide Azzolini nella sua intervista al Napolista: quella parte di sostenitori del Napoli sostanzialmente tranquilla, che non fa rumore e non dichiara guerra ad ogni occasione e che sempre più spesso troviamo schierata tra i sostenitori del presidente.
In giro nel web non ci sono sue dichiarazioni che lascino intendere che sia tifoso. Come prima cosa, dunque, gli abbiamo chiesto se seguisse il Napoli e ci ha sorpresi sentire che si dichiara tifosissimo, “un tifoso intimo, che soffre in silenzio” e che a calcio gli piace anche giocare: “Partecipo ad un torneo intersociale over 60 con una squadra che perde sempre: si chiama ‘Cuba Libre’, e già l’idea insita nel nome la dice lunga”, dice ridendo.
De Laurentiis: come lo giudica dal punto di vista imprenditoriale?
«Non conosco i conteggi di bilancio, ma da quello che vedo De Laurentiis è un ottimo imprenditore. Credo abbia fatto raggiungere all’impresa Napoli livelli molto alti parametrati con gli incassi. Perché, vede, oggi un’azienda può essere chiamata tale solo se porta in pareggio il bilancio, altrimenti fallisce. Da questo punto di vista il Napoli come azienda ha avuto una netta crescita. A Napoli si lamentano, ma cosa dovrebbero dire i tifosi delle squadre che sono alle spalle del Napoli rispetto al gap che si ha non solo con la Juventus ma con lo stesso Napoli?».
De Laurentiis cerca di proiettare il suo Napoli verso l’Europa. Da questo punto di vista può essere considerato un presidente all’avanguardia?
«Fa bene a considerare l’aspetto internazionale. Il calcio si sta evolvendo. Mi sono innamorato del Napoli da bambino, quando mio padre mi portava sulle spalle allo stadio, le prime volte in curva, poi nei distinti. All’epoca, però era proprio un altro calcio. Ricordo che per vedere tre minuti di un servizio sul Napoli aspettavo la Domenica Sportiva e mi bastava vedere quei tre minuti soltanto. Non avevamo nient’altro: solo giornali, fotografie, c’era Sport Sud che divoravo per avere più notizie. Oggi, invece, è cambiato tutto: il calcio è dietro l’angolo. Vediamo la partita al bar o sul telefonino, che è ancora peggio. Se non guardiamo all’aspetto internazionale non siamo al passo coi tempi. Le faccio un esempio: parecchi anni fa ero negli Stati Uniti per lavoro ed ebbi la gradita sorpresa che alle 8.30 del mattino trasmettevano una partita del Napoli in un cinema. Era un momento in cui la tv non trasmetteva le partite in diretta, alla radio c’era Tutto il calcio minuto per minuto. Ebbene, mi resi conto che quella platea di napoletani in mezzo alla quale mi trovai rappresentava un tifo impressionante, quasi da stadio, con sciarpe e bandiere. In un cinema. Capii la funzione internazionale che riveste il Napoli. Oggi, con la televisione, il Napoli è seguito da tutti i tifosi che sono in giro per il mondo. Sempre per lavoro, quando portai la mostra del Tesoro di San Gennaro a Parigi, la prima cosa che feci fu contattare i soci del Paris Saint Gennar per andare a vedere la partita da loro. Insomma, se il calcio non fosse cambiato, oggi non potremmo vedere tutti insieme la squadra. Per la mia età è anche più comodo che andare allo stadio, perché il San Paolo è inabitabile, assolutamente inospitale».
A proposito dei tifosi del Napoli all’estero: quelli sì che apprezzano la gestione De Laurentiis, non come in città. Secondo lei perché?
«Perché all’estero si ha una visione non parziale della vicenda, non si guarda al fatto che lo stadio sia pieno o vuoto. Ho la sensazione che una parte del tifo strumentalizzi la situazione per altri motivi. Lo dico subito con grande sincerità: io detesto il tifo strumentalizzato. Il vero tifoso è quello che va allo stadio a prescindere dalla coreografia, ci va con amici per seguire la partita. Il tifo non ha bisogno di essere organizzato, non può essere un professionismo: è una passione. Sono contro tutti i professionismi delle cose volontarie. Non vedo perché si debbano alimentare o foraggiare situazioni di strumentalizzazione. Sono contrario. E, soprattutto, non mi sento rappresentato da questi tifosi organizzati. Una volta ho letto un manifesto di un gruppo di tifosi, c’era scritto “noi rappresentiamo i tifosi”. Ma io non mi sento rappresentato. Io sono un singolo tifoso, non ho votato nessuno per farmi rappresentare».
Al mondo del tifo organizzato De Laurentiis ha messo un freno dal primo momento…
«Esatto. Ha messo un freno agli ultrà, a un tifo violento. In occasione di Napoli-Manchester City sono andato in curva con mia figlia, che non vive a Napoli ma è tifosissima del Napoli per la proprietà transitiva della passione. Pensavo che fosse ancora la curva di un tempo, invece mi sono trovato a dover rispettare un posto che non era quello che volevo, a non poter esultare in un certo modo. Mi sono trovato costretto in una passione. Così come rimasi allibito, qualche anno fa, quando con mio padre andai a vedere la partita con cui il Napoli superò la Lazio e nacque il coro spontaneo ‘Oj vita mia’. Fu un momento di grande emozione e invece fu contestato anche quello, non si sa perché. Io tifo come mi pare e quanto mi pare, ovviamente restando nella sfera del lecito: se tiro i trictrac faccio un danno alla società e a me stesso in quanto napoletano».
Nei giorni scorsi De Laurentiis ha dichiarato che negli stadi italiani si spaccia droga. Ora, sappiamo tutti che la droga al San Paolo si consuma, ma non sono mai emerse prove di un vero e proprio spaccio. Le sue potrebbero sembrare dichiarazioni banali, invece gli ha persino risposto il sottosegretario Giorgetti. Forse allora non è una banalità quella che ha detto?
«Nella partita contro il Manchester City di cui le parlavo prima mi trovai con una ragazza di 16-17 anni in un contesto che sembrava più un angolo di spaccio di un quartiere malfamato che uno stadio, con uso e consumo di droga. Ho trovato che fosse tutto sbalestrato. Da quel momento mi sono allontanato dallo stadio. Ho anche pensato che forse era meglio non andare più in curva. Questa cosa mi ha toccato molto. Ripeto: allo stadio andavo con mio padre, sulle sue spalle e nonostante lo stadio fosse stracolmo, mi sentivo sicuro, non c’era nulla che potesse far percepire il pericolo. Invece ho percepito il pericolo quando ci sono andato un paio di volte con mia figlia».
A proposito di pericolo, siamo alla vigilia di Napoli-Inter, una partita considerata a rischio…
«Ero a Roma con mia figlia e alcuni amici per la partita di Coppa Italia in cui accadde la disgrazia terribile di Ciro Esposito. Non c’è bandiera né passione che tenga sulla vita. Questa è un’altra cosa che allontana dallo stadio. La passione e il tifo non si bloccano, restano, ma resta anche l’interrogativo: perché devo andare a rischiare in uno stadio se questo non è sicuro? Sull’Italia e sulla gestione del calcio italiano ho molte remore: spesso si fa a chi figlio e a chi figliastro. Sono stato negli stadi di Londra dove è un piacere andare, dove il tifo è vero, non strumentalizzato. Dov’è il tifoso napoletano di una volta, quello che voleva solo accompagnare la squadra?».
Come mai il tifoso napoletano è cambiato così tanto?
«Non riesco a spiegarmelo. Ricordo che il Napoli in Serie C faceva il pienone, in Serie B pure. Ancora prima, quando non vinceva nulla e al massimo si piazzava al quinto o al sesto posto, idem. Il tifo era appassionato a prescindere. Credo ci sia una sorta di imborghesimento del tifo: ci siamo abituati a dei buoni livelli e vogliamo sempre di più, ma probabilmente senza avere il fatturato per farlo, come tutti dicono. Ma se fossi un tifoso del Milan, dell’Inter, della Fiorentina, della Roma e della Lazio cosa dovrei dire? Molti miei amici di altre città non comprendono quello che avviene a Napoli. Non si spiegano cos’è che non ci va bene. Abbiamo una squadra che va benissimo, abbiamo cambiato allenatore e più o meno ha lo stesso punteggio del precedente, che ovviamente era un vate, è stato divertentissimo, straordinario, ma è arrivato Ancelotti, che probabilmente può gettare le basi per il futuro. Che andiamo trovando? Non credo che il tifoso napoletano sia cambiato, la passione è sempre la stessa. Probabilmente c’è un condizionamento forte da parte di alcuni, determinato non sempre da una passione pura ma anche da altri interessi».
C’è qualcosa che contesta, alla società di De Laurentiis?
«Non posso parlare di contestazione vera e propria. Io non contesto, pago il biglietto e se mi piace bene, sennò non vado a vedere la partita. È una questione di fede, mica siamo soci del Napoli. Comunque, l’unica cosa che rilevo è che la comunicazione non è il miglior aspetto dell’azienda Napoli. È l’unica pecca che potrei trovare».
Lei ha un passato da giornalista, ma ha scelto di dirigere il Museo del Tesoro di San Gennaro. Perché?
«La mia storia è abbastanza strana: la forza centripeta di questa città è straordinaria. Ero andato via da Napoli, ho lavorato in Rai per una decina d’anni per alcuni programmi radiofonici, poi ho iniziato a fare documentari storico artistici. Mi ero trasferito a New York perché lavoravo per la Bbc. Venni a Napoli per fare un documentario su San Gennaro e, come tutti gli stupidi che hanno delle prevenzioni, ritenevo che fosse solo un fatto folcloristico. Invece ho scoperto un mondo, sia dal punto di vista antropologico che culturale, una ricchezza straordinaria dietro San Gennaro, il culto e il Tesoro, che non era esposto. Da quel momento il mio obiettivo è stato di aprire il Museo, non per fare il direttore e basta ma affinché si potessero esporre cose di altissimo livello, che non hanno pari nel mondo. Mi sono ritrovato ad abbandonare quello che stavo facendo, anche con grande successo: la forza centripeta della città è stata talmente forte che sono tornato per dirigere il Museo. I primi anni sono stati complessi: aprire un museo da zero non è facile, però poco per volta, curando la comunicazione, con un approccio serio rispetto a ciò che si deve offrire al turista, ci sono riuscito. La crisi dell’immondizia è stata terribile, ma grazie al cielo questa è una città che rinasce sempre».
Di che tipo di rinascita si può parlare, a Napoli? Marino Niola parla di città che si autogestisce, che si arrangia con le proprie forze, come ha sempre fatto. Una rinascita dal basso ma positiva. Lei come la vede?
«Tutte le rinascite di Napoli partono dal basso. Le poche volte che sono partite dall’alto sono fallite, compresa la rivoluzione del 1799, che è partita dagli aristocratici e una rivoluzione di questo tipo non può mai diventare una rivoluzione. Credo che la città abbia una grande forza nella sua bellezza, riesce a rinascere dal basso nonostante una serie di componenti non esattamente convergenti. Ad esempio, non amo per niente Gomorra. Non contesto chi la vede, ma non lo amo perché esprime quella parte di Napoli che in qualche modo andrebbe combattuta».
È autogestito anche il boom del turismo degli ultimi anni?
«II boom turistico c’è: i musei e gli alberghi sono pieni. Intorno al Museo di San Gennaro, in una via Duomo che era disastrata, in cui erano rimasti solo pochi negozi di abiti da sposa che pure si stavano impoverendo, sono nati bar e ristoranti e se non c’è mercato queste cose non nascono. E poi c’è un altro dato. Il Museo è ormai un’impresa e io faccio delle statistiche ogni tanto ed ho visto la crescita dei visitatori dei due Musei, ma anche quella delle prenotazioni, come avviene la vendita del biglietto. Che si tratti di un turismo non organizzato è vero, ma ormai è tutto il turismo a non essere più organizzato. Tutti fanno da sé, attraverso Internet, non esiste più il tour operator che fa incoming, come un tempo. Negli Stati Generali del Turismo di due ani fa un vate valenciano evidenziava che il grande sviluppo turistico che riguarderà in particolare Napoli e Palermo arriverà fino al 2026 e poi si assesterà. La grande scoperta dei turisti è innanzitutto che Napoli non è quella di Gomorra né quella che propinano le televisioni, e poi che ci sono i napoletani, che riescono ancora a dare senso di napoletanità e di simpatia differente dagli altri. E questo mi sta benissimo».
In città in questo momento c’è un’offerta artistica enorme: Canova, Caravaggio….
«L’offerta di Napoli è un’altra cosa molto interessante. E poi c’è un dato essenziale: chi viene a Napoli ci torna almeno altre due volte. A Roma, invece, sta accadendo l’inverso: ci si va una volta sola e non ci si torna più perché non c’è offerta. A Napoli ci sono congressi, convegni, mostre, arte e musei che riescono a farsi concorrenza positiva e a darsi una mano. Solo Milano ha questo tipo di sviluppo e questa offerta così potente. C’è un’effervescenza incredibile. Ed è cambiata anche la tendenza: prima si andava a Capri, Sorrento, in Penisola e poi a Napoli; ora si viene a Napoli e poi dalle altre parti. Lo trovo straordinariamente positivo amando e tifando per questa città».
I musei napoletani, inoltre, si sono avvicinati molto alla città, sono stati restituiti alla fruizione pubblica…
«Questo grazie a dei nuovi direttori, che possiamo definire allenatori o presidenti, per tornare al calcio. Hanno fatto in modo che i musei non fossero più strutture paludate, ma producessero un’offerta continua e costante. È quello che facciamo anche noi: il Filangieri sta rinascendo, adesso ospita la mostra sui caravaggisti. L’ho anticipata rispetto agli altri in modo da creare un filone tra il Museo Filangieri, il Pio Monte della Misericordia e il Museo e Real Bosco di Capodimonte».
Su Caravaggio lei ha scritto anche un libro…
«Insieme a Rossella Vodret, la massima esperta di Caravaggio. A volte non tifo solo Napoli, non faccio il tifoso di professione (dice ridendo, ndr). È sui luoghi e i misteri del Caravaggio. Una ricerca che è durata molto tempo e che in qualche modo sintetizza tuta la vita del Caravaggio, ma attraverso documenti ufficiali e non attraverso i ‘si dice’».
Quali sono i progetti futuri dei due musei che dirige?
«Le do un’anticipazione. Per il San Gennaro, avendo raggiunto una sorta di pareggio di bilancio, da settembre vorrei offrire un prezzo ridotto ai napoletani. C’è un’affluenza del 75-80% di non napoletani e invece secondo me i napoletani hanno il dovere, il diritto e meritano di vedere un proprio segno di appartenenza. Ci sarà anche un percorso multimediale avanzato, in modo tale da offrire ciò che oggi si chiama storytelling. Ho eliminato le audioguide, le trovo fredde e asettiche: ho formato dei giovani storici dell’arte, li ho formati affinché sappiano comunicare e raccontare il museo. Il Filangieri, invece, a settembre, ospiterà una mostra sulle donne del Filangieri».
Le interviste del Napolista sullo stesso tema:
Intervista a Angelo Carotenuto
Intervista a Francesco Patierno