ilNapolista

Mura: prima i suivers italiani erano chiamati macaronì, poi Gimondì

L’omaggio su Repubblica: “Se ne va un hombre vertical”. Racconta come nacque la loro amicizia: non scrisse quando uscì con una donna che poi diventò sua moglie

Mura: prima i suivers italiani erano chiamati macaronì, poi Gimondì

Su Repubblica, Gianni Mura ricorda Felice Gimondi, scomparso ieri mentre faceva un bagno a Giardini Naxos.

“Era la tenacia, Gimondi. L’ostinazione, la cocciutaggine, che dicono tipica dei bergamaschi, la dignità, anche”.

E infatti non si è mai arreso quando ha trovato davanti a sé Merckx, “il più forte corridore di tutti i tempi, su tutti i terreni” senza la cui concorrenza, probabilmente, Gimondi avrebbe vinto tutto.

Scrive Mura:

“Era un amico, per me. Mi fa piacere, nella tristezza, sapere che è morto nuotando, senza nemmeno accorgersene. Un combattente come lui non meritava una fine più penosa”.

Un rapporto di amicizia e fiducia nato una sera in albergo, a Diano Marina, dove la Salvarani era in ritiro. Mura racconta che una sera incontrò Gimondi mentre usciva dall’ascensore vestito elegante, contrariamente all’abitudine di indossare la tuta. Il campione gli chiese di non scrivere nulla sul giornale, perché stava andando a cena con la figlia dei proprietari dell’albergo, che poi sarebbe diventata sua moglie. E così fece il giornalista.

Erano anni in cui c’erano tanti corridori italiani fortissimi. Motta, Adorni, Zilioli, Balmamion, Taccone, Bitossi, Dancelli, Durante, Zandegù. E tra gli stranieri Anquetil, Poulidor, Ocaña, Fuente. E poi Merckx.

“Gimondi sembrava un predestinato. Non era un signor nessuno, aveva vinto il Tour de l’Avenir e a quello vero, per professionisti, del ’65, Luciano Pezzi lo portò solo perché uno dei gregari previsti per Adorni aveva marcato visita per un’intossicazione da frutti di mare. Al Giro del ’65, vinto da Adorni, Gimondi si era piazzato terzo. Ottimo risultato. Al Tour, gli dissero i fratelli Salvarani prima della partenza, ci vai per dare una mano ad Adorni la prima settimana, poi puoi tornare a casa. Solo che Felice, maglia numero uno-due-tre, come in un gioco di prestigio, indossò la maglia gialla alla prima settimana e non poteva certo ritirarsi”.

Così continuò e arrivò in maglia gialla a Parigi, dopo uno storico scontro con Poulidor sul Mont Revard.

“E da allora, per inciso, i suiveurs italiani che erano chiamati les macaronì, furono chiamati les Gimondì”.

Veniva da una famiglia semplice di un paese piccolissimo, Sedrina. Padre camionista e madre postina. Non ostacolarono il volere del figlio ma gli dissero chiaramente che se non fosse andata bene avrebbe scaricato la ghiaia dal camion anche lui. Ma non lo fece mai.

Ogni anno, da quando hanno smesso di correre, Gimondi e Merckx si sono ritrovati una sera a cena con le mogli. Diceva il belga:

“Capivo che era mezzanotte quando Felice si alzava per andare a dormire”.

Era molto religioso, correva con alla caviglia un cordino benedetto.

“Con i gregari, tendeva a usare più il bastone della carota. E se ne sarebbe scusato dopo il ritiro. All’inizio della carriera, tanto per dare un’idea, era stato cacciato con ignominia da Sergio Zavoli durante il Processo alla tappa solo perché aveva detto «c’era un po’ di casino in testa al gruppo». Riammesso sul palco dopo qualche giorno, e dopo le debite scuse”.

Gimondi era l’essenza del ciclismo, scrive Mura:

“Grande agonista, ispido e generoso, Gimondi ha rappresentato l’essenza del ciclismo: lottare, lottare sempre, lottare comunque”.

Il suo era un ciclismo più semplice e duro, meno tecnologico.

“Gimondi lo ha attraversato con dignità e forza. È un altro hombre vertical che se ne va”

ilnapolista © riproduzione riservata