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Rivoluzione nello sport USA: gli atleti dei college potranno guadagnare dagli sponsor

Dopo la legge approvata in California, cede anche la NCAA: il ricchissimo mondo dei college sarà costretto a “pagare” le sue star

Rivoluzione nello sport USA: gli atleti dei college potranno guadagnare dagli sponsor

Il primo mattone era caduto in California, poi è venuto giù tutto il muro. L’era del proibizionismo economico dello sport universitario americano è finita, ed è solo il primo pezzo di un domino finanziario che cambierà per certi versi lo sport professionistico USA.

La NCAA (National Collegiate Athletic Association), ovvero l’organizzazione che riunisce i campionati studenteschi più importanti e seguiti degli Stati Uniti, ha deciso di aprire le porte alla liberalizzazione delle sponsorizzazioni per gli atleti dei college. In pratica chi fa sport per conto dell’università potrà guadagnare soldi grazie ad accordi commerciali, mettendo così la parola fine alle infinite pratiche sottobanco a cui erano costretti i college per accaparrarsi gli atleti migliori cercando di evitare il divieto di sfruttare la leva economica. Prima gli unici soldi su cui potevano contare le future stelle dei campionati pro erano quelli delle borsa di studio.

La NCAA ha sottolineato che gli atleti sono soprattutto studenti e come tali dovranno essere trattati, non certo come impiegati: va mantenuta una “distinzione chiara tra le opportunità scolastiche e professionali”. Chiacchiere, ovvio. Perché l’universo degli sport studenteschi, negli Stati Uniti, è una bolla economica di proporzioni enormi.

La bolla economica

Si stima che l’anno scorso il giro d’affari degli sport universitari sia stato di 14 miliardi di dollari. Per farsi un’idea: i ricavi della Premier si aggirano sui 5,3 miliardi di euro, la Liga ricava 2,9 miliardi, la  Bundesliga 2,8 miliardi, la Serie A 2,1 miliardi. Parliamo di basket, football, ma anche di tutti gli altri un po’ meno seguiti: baseball, pallavolo, atletica, lotta greco-romana ecc… Gli americani dedicano quasi più attenzione ai campionati giovanili che a quelli senior, in alcuni casi. Ci sono squadre di football delle high school che riempiono stadi da 30.000 persone. E a marzo il paese letteralmente si ferma per la “March Madness”, la fase finale del campionato di basket dei college. Nel 2018 le partite delle finali universitarie di pallacanestro sono state trasmesse in 180 paesi nel mondo e solo negli Usa sono state viste da più di 97 milioni di spettatori. Alle Final Four di San Antonio erano presenti 68.257 spettatori e sono stati assegnati 2.206 accrediti per i media. Sono stati persino stimati in 6,3 miliardi di dollari le potenziali “perdite” per le aziende a causa della distrazione dei lavoratori. Per il match tra Duke e North Carolina del 2019, i biglietti sono arrivati a costare fino a 3mila dollari, praticamente come quelli per il Super Bowl di football. L’allenatore di Duke, Mike Krzyzewsk, guadagna ogni anno circa 9 milioni di dollari per allenare un gruppo di atleti non professionisti.

In questo sistema, che frutta alle università più importanti fino a 100 milioni di dollari all’anno, soprattutto per i diritti televisivi, gli atleti – i protagonisti – non potevano guadagnarci nulla. Per legge.  Anzi, addirittura finivano per essere “svantaggiati” rispetto agli studenti “normali”, che per esempio potevano entrare sul mercato del lavoro e guadagnare con le sponsorizzazioni legate ai loro profili social o a YouTube. Per questo motivo in passato i giocatori più forti , sicuri di essere selezionati al draft, preferivano passare direttamente dal liceo all’NBA: Kobe Bryant e LeBron James, per dirne due. Dal 2005 l’NCAA aveva una pezza pure a questo stratagemma, imponendo il limite minimo di 19 anni per approdare nell’NBA.

Il caso Zion

Zion Williamson ha 19 anni, e appena ha potuto la mollato il college per rendersi “elegibile” al draft: è stato pescato come prima scelta assoluta e ora è un giocatore dei New Orleans Pelicans. Zion è un caso emblematico di questo contorto cortocircuito economico. L’anno scorso, da studente della Duke, a soli 18 anni considerato l’erede di Lebron James, durante una partita con North Carolina cade rovinosamente a terra dopo che il piede sinistro su cui sta facendo perno sfonda letteralmente la scarpa. Si procura una distorsione al ginocchio destro. E’ un ragazzo di nemmeno 20 anni, ma il suo infortunio viene commentato dallo stesso James e da Barack Obama, che assisteva alla partita.

Le azioni di Nike, che produce la scarpa incriminata, perdono immediatamente a Wall Street l’1,7 per cento del proprio valore. La cosa incredibile è che Williamson non aveva un contratto personale con Nike, ma indossava quel particolare tipo di scarpe perché la squadra della sua università ha con Nike un contratto di sponsorizzazione da quasi 100 milioni di dollari in dieci anni. Soldi di cui Williamson non prendeva nemmeno una piccola fetta. Ora, da professionista, Zion ha firmato il contratto più ricco di sempre per un rookie con Jordan Brand, superando persino Lebron.

Ecco cosa significa questo cambio di passo a cui è stata costretta l’NCAA: da oggi i college potranno attrarre i migliori talenti non solo col blasone del proprio programma sportivo, ma con il traino di sponsorizzazioni sempre più ricche. Si apre, letteralmente, un nuovo mondo. Una piccola rivoluzione, il primo pezzo del domino.

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