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Sul Guardian il racconto di Estudiantes-Milan del 1969: una storia di sangue, violenza e rapimenti

Era la gara di ritorno della Coppa Intercontinentale. Si chiuse con un bilancio di tre giocatori arrestati e uno rapito per diserzione

Sul Guardian il racconto di Estudiantes-Milan del 1969: una storia di sangue, violenza e rapimenti

Sul Guardian la storia della sanguinosa partita Estudiantes-Milan del 22 ottobre 1969, cinquant’anni fa.

La gara di ritorno della Coppa Intercontinentale si chiuse con un bilancio di tre giocatori arrestati e uno rapito.

Quel pomeriggio, Ozvaldo Zubeldía, allenatore dell’Estudiantes, riunì la squadra nella stanza 704 dell’Hotel Nogaro di Buenos Aires per dare le ultime direttive prima di recarsi a giocare alla Bombonera.

Nella gara di andata in Italia avevano perso 3-0. Il loro compito era scoraggiante, ma non del tutto impossibile.

Poco prima di entrare in campo, disse ai giornalisti della rivista argentina El Gráfico:

“Penso che abbiamo una probabilità del 20% di successo, ma sarà molto più difficile se perdiamo la testa. L’importante è mantenere la calma, giocare bene, provare a vincere la partita anche se non riusciamo a recuperare il deficit accumulato, rendere una buona prestazione e non far espellere nessuno. Gioca bene, gioca per vincere, ma senza perdere il controllo”.

Stretta in quella stanza d’albergo, la squadra lo ascoltò attentamente. Poi andò allo stadio e giocò con tale violenza che tre dei calciatori finirono in prigione.

Zubeldía non può rivendicare la sua innocenza. Si trattava di un allenatore le cui squadre erano sempre inclini alla violenza.

Il centrocampista Juan Ramón Verón (uno dei due padri dei futuri giocatori del Chelsea coinvolti nella partita, insieme al portiere del Milan Fabio Cudicini) ha dichiarato che la squadra fu informata delle abitudini, dei componenti e dei punti deboli dei rivali. Persino delle loro vite private in modo da farli colpire meglio.

Zubeldìa spiegò che dopo il 1968 la squadra era stanca e i giocatori non ce la facevano più. C’erano stati tanti tour e partite amichevoli, i giocatori non avevano più forze, si trasformarono e iniziarono a giocare in un modo che fu definito “l’anti calcio”, un gioco sporco.

Quella notte, l’atmosfera all’interno della Bombonera era così febbrile che il Milan interruppe il suo riscaldamento per la quantità di abusi che stava ricevendo. Poi iniziò la partita, e la violenza.

Nel primo tempo, l’attaccante del Milan Pierino Prati fu calciato a terra da Alberto José Poletti, il portiere dell’Estudiantes e poi buttato fuori dal gioco da Ramon Suárez.

Ancora, Rivera fu buttato a terra violentemente da Eduardo Manera e Suarez, dopo aver insultato pesantemente Néstor Combin, lontano dal gioco lo ha colpito selvaggiamente sul naso.

Con il sangue che gli colava sul viso, fu caricato su una barella. Ma la sua avventura non era finita lì.

Con la faccia gonfia e gomitoli di cotone imbottito in ciascuna narice per arginare l’emorragia, Combin alle 12,30 salì a bordo del pullman della squadra. Mentre si faceva strada nel parcheggio fu però circondato da sei sconosciuti e caricato a bordo di una automobile verde. Un fan saltò sul cofano per impedirne la partenza e fu trascinato via dalla polizia e picchiato.

“Milano pensava che la notte di polemiche e confusione volgesse al termine ma era appena iniziata”.

Combin era nato in Argentina e i media locali lo descrivevano come un traditore perché non aveva svolto il servizio militare. Un magistrato lo aveva accusato nel 1963 e si diceva potesse essere arrestato e accusato di diserzione. Combin, però, aveva prestato servizio nell’esercito francese e in base a un accordo reciproco tra le due nazioni non aveva alcun obbligo nei confronti della terra natia. Ciò, però, non dissuase la polizia di Buenos Aires dal rapirlo.

“Nelle prime ore di giovedì mattina i giornalisti italiani hanno visitato le stazioni di polizia della città in cerca del giocatore perduto. Alle 2 del mattino fu finalmente localizzato, ma 45 minuti dopo fu caricato su un’altra macchina e portato via di nuovo, questa volta in una prigione militare”.

Alle 4 del mattino arrivò l’accusa ufficiale. Il giocatore aveva preso la precauzione di preparare il suo diario e una lettera del console francese a Milano.

Alle 10.30, stanco e intontito, fu autorizzato a parlare brevemente con i giornalisti. Raccontò che

“Suárez continuava a urlare,’Ti romperò una gamba’ sputandomi in faccia. Non ho davvero idea del perché ce l’aveva con me”.

A mezzogiorno, dopo l’intervento del presidente argentino, Juan Carlos Onganía, fu rilasciato e portato all’aeroporto per unirsi ai suoi compagni di squadra sul volo di ritorno.

Onganía aveva assistito alla partita, trasmesso in televisione in tutto il mondo. Più tardi, quel giorno, parlò di uno

“spettacolo deplorevole che violava l’etica sportiva più elementare”.

Su sua richiesta, la polizia diramò mandati di arresto per Poletti, Suárez e Manera. Furono condannati a pene detentive di 30 giorni e a lunghi divieti.

“La partita segnò la reputazione dell’Argentina per la sgradevolezza, a cui avevano già contribuito i due quarti di finale della Coppa del Mondo del 1966 contro l’Inghilterra e le due partite dell’Estudiantes contro lo United”.

Ma questa violenza, in realtà, era una malattia globale.

L’allenatore del Brasile, João Saldanha, aveva visto in tutta Europa ferocia simile. Aveva dichiarato:

“Il karate è un buon sport. Facevo karate e mi piace. Ma non dovrebbe essere praticato con le scarpe da calcio. Nelle partite Romania-Portogallo e Jugoslavia-Belgio è accaduto. Perché continuare a giocare quando non è più una partita di calcio, quando le leggi sono state gettate nel cestino e noi abbiamo invece la legge della giungla?”.

L’Argentina, però, era particolarmente esperta in questo tipo di calcio che si mischiava al karate. Il peggio doveva ancora venire.

Circa 18 mesi dopo la partita di Milano, un’altra squadra argentina, il Boca Juniors, giocò con lo Sporting Cristal del Perù nella Coppa Libertadores.

A due minuti dalla fine scoppiò una rissa che portò a un cranio fratturato, un naso rotto, un giocatore che picchiava un altro con una bandierina del calcio d’angolo, la madre di uno dei peruviani morta di un attacco di cuore mentre guardava suo figlio farsi colpire in televisione e 19 cartellini rossi.

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