Strategica litania del tecnico dell’Inter, che se la prende con la società: “A chi chiediamo di vincere, a Barella e Sensi che arrivano da Cagliari e Sassuolo? Con tutto il rispetto…”
Una volta disse che è “impossibile essere vincenti senza essere antipatici”. Era già un vincente simpatico a pochi, Antonio Conte. Ma la linea è sempre stata quella: cane da presa, fuori e dentro. Amato dentro lo spogliatoio, finché la testa regge. E fuori un cataclisma costante.
“A me basta sapere di avere l’1 per cento di possibilità di vincere, e per quell’1 per cento lotto”.
L’ha detto appena arrivato sulla panchina dell’Inter. Mentre con Marotta e la proprietà pianificavano la sanguinolenta estradizione di Icardi, e mettevano in cascina per il generale inverno della Serie A Lukaku, Barella, Sensi, Lazaro, Biraghi, Godin e Sanchez. Più Antonio Conte stesso, che Marotta definisce subito “il top player”. L’Inter il top player ce l’ha in panchina, dice. Conte subodora, e secerne la prima lacrima: “I top player dobbiamo averli in campo…”.
Ieri sera, fresco di rimonta a Dortmund, avanti 2-0 e sconfitto 3-2, ha preso telecamera e microfono ed è salito in cattedra producendo uno show di pianto professionale: nei toni, nelle parole, nei modi. Teatro puro.
“Venisse magari qualche volta qualche dirigente a dire qualcosa. Si è programmato all’inizio, si poteva programmare molto meglio. Sono stati fatti errori importanti, non si può fare campionato e Champions in queste condizioni e arrivare tirati. Tiriamo fuori sempre gli stessi argomenti”.
E infatti Conte sono un po’ di partite che piange… e vince. Prima è la rosa corta, poi è il calendario intenso dell’Inter che “rappresenta un’anomalia”. Poi, di nuovo, è la rosa corta. La fa lunga, lunghissima, ma il problema è quello: giocano sempre gli stessi.
“Oltre un certo punto non si può andare dobbiamo solo ringraziare perché qui ci sono calciatori che hanno giocato sei partite su sei in questo ciclo. Siamo l’Inter, dobbiamo farci tutti un bell’esame di coscienza”.
Ma Conte è lo stesso che quando era alla Juve ampliava le prospettive della lamentela al panorama europeo: “Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano 100 euro, non puoi pensare di mangiare con 10 euro”. Non è una questione di soldi, è una strategia. Fu lui che disse che è “sempre meglio mettere le mani davanti che dopo dietro, perché dopo fa male…”. Per cui: mani avanti, ché siamo a novembre e gennaio è ancora lontanuccio. Il problema è che proprio prima del match col Borussia, Marotta si era presentato ai microfoni di Sky per dire, a proposito delle voci di una trattativa per Vidal, che “di cileno è ce n’è già uno, aspettiamo Sanchez”.
Conte ha preventivamente elaborato il messaggio, ha perso, ed ecco lo show: “Non fatemi tornare sugli stessi argomenti. Queste partite devono far capire a chi deve capire le problematiche dell’Inter”. Con la voce rotta dalla sofferenza, in una danza di due note, alta e bassa: una litania. E argomentazioni al limite del sindacale:
“Qui ci sono calciatori che hanno giocato sei partite su sei in questo ciclo, che gli posso dire? Li devo solo ringraziare. Se li critico mi possono pure rispondere che ne hanno giocate sei su sei. Hanno ragione. No, non voglio neppure parlarne del secondo tempo, ci sarebbero troppi alibi… Mi dà molto fastidio compromettere la qualificazione per questi tipi di problemi. Spero che questa ferita la sentano tutti”.
Di più: alla chiusura del mercato l’infallibile griglia della Gazzetta (quella per intenderci che l’anno scorso dava il Napoli quinto…) si complimenta con l’Inter per gli acquisti. Ecco… non si fa!
“Leggo sui giornali tanti complimenti dopo il mercato, ma dove? Sono incazzato nero. Nessuno dimentichi i nostri problemi. Tranne Godin non ha vinto niente nessuno. Non hai giocatori importanti o maturi che riescono a gestire. A chi lo chiediamo? A Barella e Sensi che arrivano da Cagliari e Sassuolo? Con tutto il rispetto…”.
Eccolo l’obbiettivo della strategia piangente: “Nessuno dimentichi i nostri problemi”. E’ Conte allo stato dell’arte: oscurare i problemi altrui, mettere i suoi al primo posto dell’agenda. Peccato che ieri il piano sia finito in mezza fetecchia: è bastato che Ancelotti non si presentasse alle stesse telecamere che l’allenatore nerazzurro aveva dominato fino ad un attimo prima. L’ammutinamento del Napoli. Game, set, match.