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Dietro la tragedia di Ponte Milvio la conferma che non sappiamo nulla dei nostri figli

Il circo mediatico non ha risparmiato nulla, ma proprio nulla, a una vicenda che potrebbe farci riflettere e che invece è stata raccontata per cliché

Dietro la tragedia di Ponte Milvio la conferma che non sappiamo nulla dei nostri figli

Perché? Perché Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli non hanno attraversato col verde, sulle strisce pedonali?

«Forse perché abbiamo sedici anni? Per fare più in fretta a raggiungere i tuoi amici, per non fare tardi sulla via del ritorno a casa. O forse e lo so che è stupido, perché è divertente».

L’ultimo pezzo della tragedia arriva nella mezza confessione a Repubblica di un’amica – “l’amica Cecilia” – delle due ragazzine investite e uccise a Corso Francia, a Roma. Venduto come tale, dopo che tutto era stato già detto. Dopo giorni di mostro incatenato alle prime pagine. Il “gioco pericoloso”, che poi gioco in fondo non era: solo ragazzini che fanno una cosa inconsapevolmente sventata, azzardano. Ma il “gioco” funziona meglio nella sua rappresentazione incriminante e un po’ irrispettosa delle vittime: è il cliché imperante, l’ultimo in fila in una vicenda che non se n’è fatto mancare nessuno.

Fino ai funerali con le bare bianche, il monito col dito puntato del prete sull’altare (“la vita non è guidare sbronzi”) buono per il titolo del tg, gli amici in processione sul luogo del delitto, la retorica delle tre famiglie distrutte, che proprio perché realmente distrutte andrebbero salvate dalla corrosione della sovraesposizione. E invece no: la notizia va in auto-alimentazione esponenziale, si identificano con l’accetta una vittima e un colpevole, poi il bianco e nero sfumeranno piano piano nel grigio dell’umana pietà. Ma il danno sarà già stato consumato. E resterà il dolore, quello delle luci spente, che fa più male.

L’abbiamo letta e strumentalizzata mille volte questa storia, solo che ogni volta monta peggio, cercando il limite dell’esasperazione emotiva. I cognomi delle vittime che svaniscono, perché Gaia e Camilla sono amiche nostre, nostre figlie e nipoti, tocca farci carico del dolore. Altrimenti è cronaca malriuscita. Le foto strappate ai social, che nascondono una scelta editoriale precisa. Le teenager col telefonino sempre in mano, le pose da selfie, quel racconto implicito che se ne fa suggerendo colpevolmente la superficialità dell’adolescenza.

E il culo dei media di ritrovarsi nel ruolo del carnefice il figlio di un noto regista, coi valori di alcol e droga nel sangue alterati. Sì, il culo. Perché se a uccidere le ragazze fosse stato l’impiegato astemio del catasto a 50 all’ora il copione avrebbe perso vigore. E invece eccolo, un attimo dopo, il titolo sulla prima pagina di Repubblica: “AUTISTA DROGATO”. Da lì in poi, tutto in discesa.

ponte milvio

Come se le conoscessimo, quelle famiglie. Come se dovessimo farci bastare quell’apparenza che inganna quasi sempre, e che trascina con sé un giudizio. Quando invece non dovremmo permetterci, proprio no.

Invece giorni interi ad elaborare un lutto altrui, apparentandoci online. I giustizialisti, quelli del concorso di colpa, gli apologeti del destino implacabile, e poi i maestri, quelli che prendono sempre la via del ravvedimento imposto dall’alto, quelli “che la morte di queste due bambine non sia vana”. Imparate ragazzini, non ci cascate più.

Come se i genitori – almeno la maggior parte – non passassero metà della loro esistenza a dire ai figli cosa non fare in modo che i figli finiscano per farlo anche perché i genitori non vogliono che lo facciano. Tanto che persino l’amica intervistata da Repubblica non può fare a meno di dirlo:

“E’ assurdo che debbano morire due ragazze, per insegnare a noi adolescenti a non rischiare la vita”.

Sapendo mentre ne parla che no, non basta per insegnare a loro adolescenti alcunché. Che gli adulti assistono più o meno inconsapevoli alle vite dei figli, e che il messaggio pedagogico non deve per forza far parte della tragedia. Il trauma di cui ogni lettore o spettatore porta via un pezzettino, vale invece solo per chi le amava, per chi poteva davvero solo chiamarle per nome, per le famiglie, per gli amici. Il resto è un circo accessorio, e molti ci azzuppano e punto.

Ora che anche la leva ultima, “il gioco pericoloso”, è stata usata per tirar via gli ultimi click, ora che il plot da tv pomeridiana è pronto, non resta che mettersi buoni ad aspettare l’ultimo step della solita trafila: l’oblio. La cronaca perderà il bollore dell’indignazione e tornerà a farsi trafiletto asettico. Le telecamere andranno via, resteranno i fiori sul guardrail.

E il dolore, che non è mai stato nostro, nonostante facciano di tutto per farcelo credere.

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