Tengono in scacco un club con i loro capricci. Nel calcio esiste un solo farmaco alle malattie: l’esonero dell’allenatore. È il sintomo della subcultura che permea quest’ambiente
Al di là di specifiche situazioni e di singole squadre, si impone una riflessione globale sulla temperie culturale che avvolge il mondo del calcio. E che è talmente radicata da non sorprendere più nessuno. Ognuno di noi la osserva senza più ritenerla una anomalia. Mi riferisco alla dittatura dei calciatori (e dei loro procuratori). I giocatori fondamentalmente hanno soltanto diritti. Nessuna norma, con relativa penalità , può incidere sulla inosservanza del loro unico dovere: impegnarsi allo spasimo per raggiungere il risultato.
Riflettete un momento. Magari facendo il paragone con altre tipologie di spettacolo. Un tenore canta la Tosca al San Carlo.
Un’ora prima della sua esibizione dice “o mi garantite un contratto per il mese prossimo o non mi impegno al meglio nella «recondita armonia»”. Il destino del cantante sarebbe la neurodeliri per direttissima.
In realtà quel che accade di norma è esattamente l’opposto. Il tenore si impegna al massimo per rispettare il contratto e (anche) per ottenere altre scritture attraverso una bella esibizione. Nel calcio invece i contratti sono carta straccia. Da mettere in discussione continuamente. Vuoi per ottenere un aumento nel contratto in corso. Vuoi per ottenere il rinnovo.
E se il calciatore non viene accontentato può accedere che giochi male. E subito un coro di lamentosi e compassionevoli commentatori: il poverino gioca male perché non è sereno, la più frequente delle affermazioni.
E il contratto in essere? Lo stipendio che viene regolarmente elargito ogni mese? Non conta nulla. Né esiste alcuno strumento per far rispettare gli obblighi contrattuali. Per punire chi rende per scelta al di sotto delle sue possibilità.
Insomma il calcio ha un solo padrone: il calciatore.
Un’altra dimostrazione di assenza di spessore culturale il mondo del calcio lo offre di fronte a qualsiasi difficoltà. Si comporta come un medico che curi la polmonite o il morbo di Kron, una frattura o una gastropatia con un unico farmaco. Poiché solo quello conosce. Così nel calcio di fronte alle difficoltà si adopera un solo rimedio. Si manda via l’allenatore. Salvo poi magari a richiamarlo dopo due mesi perché il sostituto ha fatto peggio dell’originale. Da ciò si evince che il ruolo del tecnico è tenuto in considerazione assai scarsa se non nulla. A nulla vale per curare un acciacco la sua conoscenza dell’ambiente. Si sente dire ma “ci voleva un elettrochoc”. O peggio “la squadra ormai gli giocava contro”.
Ma tu capisci? Si accetta come possibile, ed in effetti è cosa possibile, che una compagine non si impegni, od anche giochi a perdere, per una forma di avversione al tecnico. È accettabile questa aberrazione? Certamente no. Ma è di fatto accettata. Ed è quella che impedisce ogni forma di programmazione pluriennale. Si deve per forza navigare a vista. Ed inseguire l’uzzolo quotidiano dei calciatori. In effetti le storture che mi sembra di osservare sono, ritengo, il risultato del livello di subcultura che caratterizza il mondo del calcio nelle sue componenti. Tutte. Nessuna esclusa.
Ciò ovviamente fatte salve le lodevoli eccezioni di poche grandi squadre che , con i grandi dirigenti, impongono ben altro tipo di disciplina. Ed ottengono poi a valle risultati importanti e duraturi.