Si ha l’impressione che le atmosfere proprie del macrocosmo Gomorra se diluite in una serie facciano perdere sostanza e ritmo alla serie, mentre la forma film sia più adatta alle vicende malavitose partenopee
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“L’immortale” è il film che si innesta in un episodio della serie Gomorra che vede l’uscita di scena di Ciro Di Marzio (Marco D’Amore) ed è un noir bene costruito, diretto dallo stesso D’Amore che ne è protagonista indiscusso.
Ciro Di Marzio, il boss di Secondigliano, è sopravvissuto all’uccisione richiesta al suo amico Gennaro Savastano (Salvatore Esposito) e dopo un periodo di clausura diviene la nuova testa di ponte del traffico di cocaina in Lettonia per conto di Don Aniello, uno scissionista. A Riga stretto tra la guerra di clan locali e russi decide di collaborare con i secondi e si impadronisce della paranza di Bruno (Salvatore D’Onofrio) che ha messo su una fabbrichetta di ‘pezze’. Ciro è ormai “un uomo solo che non desidera più niente” e resta lì un anno facendo affari con i russi.
Il film viene vissuto su due piani temporali diversi e paralleli: l’infanzia da bambino dell’orfanotrofio di Ciro che viene avviato alla malavita dallo stesso Bruno. Le vicende dei due momenti di vita trovano sintesi in un crocevia malavitoso e vitale che porterà ad un disvelamento finale che lascia allo stesso spin-off un nuovo seguito.
Si ha l’impressione che le atmosfere proprie del macrocosmo Gomorra se diluite in una serie – comunque di successo popolare – facciano perdere sostanza e ritmo alla serie, mentre la forma film sia più adatta alle vicende malavitose partenopee. Forse perché per questo genere di format c’è bisogno di un’intensità di racconto che la serialità uccide. A meno di non essere Scorsese: come insegna il lungometraggio “The Irishman” che più che un film sembra già una piccola serie.