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Napoli può rilassarsi, è tornata nella comfort zone della sconfitta senza speranza

Una restaurazione psicologica, ancora prima che tecnica. Dal 2-0 al Liverpool a essere liquidati dall’Inter: in poco più di tre mesi il Napoli si è assuefatta alla sconfitta. E siamo tutti più sereni

Napoli può rilassarsi, è tornata nella comfort zone della sconfitta senza speranza
Napoli's belgian striker Dries Mertens celebrates after scoring a penalty during the UEFA Champions League Group E football match SSC Napoli vs KRC Genk. (Carlo Hermann)

Finalmente abbiamo perso con l’Inter. Ché non se ne poteva più di queste mezze misure di crisi, il limbo sta antipatico a tutti, da sempre. Mancava la sconfitta con la “grande” per sentirci piccoli a ragione, completando un percorso netto che dal 2-0 al Liverpool in poco più di tre mesi ha riportato tutti in una accogliente zona di comfort: ora siamo normali.

La terapia della restaurazione

È la terapia della “restaurazione“, psicologica prima che tecnica, all’ultima fase: abbiamo negato, ci siamo incazzati, l’ambiente isterico ha provato a contrattare una soluzione tra mille mediazioni, poi è arrivata la depressione, e infine l’accettazione. Ci voleva Elisabeth Kübler Ross più che Gattuso, per far pace con la nostra storia. Abbiamo perso in casa con l’Inter, embè?

“Questi ragazzi hanno un vissuto che non riescono più a sopportare – ha detto Gattuso nel postpartita – sono abituati a lottare per lo scudetto”. Lottavano per vincere, anche senza vincere. Ora invece la lotta è un’altra. È la sopravvivenza motivazionale, comunicata con un mantra un po’ stucchevole: ripartire dal basso, non abbiamo fatto niente, non siamo nessuno. Elogio della modestia, o induzione alla depressione, fate voi. Basta che sia chiaro il concetto: abbiamo campato di ambizioni e siamo scoppiati. Non ci ha retto la pompa, insomma.

Abbiamo galleggiato sulla nuvola del bel gioco, arrischiandoci a farne persino una filosofia di vita scritta sull’arrugginita cartolina cittadina. Abbiamo corteggiato una bella donna – la vittoria finale – chiacchierandoci al bar per una serata intera, per poi assistere impotenti al successo del nuovo arrivato – magari l’Inter – che con un solo sguardo e senza dire una parola se l’è portata via. E noi lì, al bancone, da soli, a convincere il bicchiere che “abbiamo fatto più possesso palla”. Mezzo pieni ad oltranza.

L’autolesionismo

“Giocare al San Paolo è sempre difficile”, ha detto ancora Gattuso. Come un qualsiasi allenatore avversario passato per Napoli e uscitone sconfitto. Che il Napoli sia stato negli ultimi mesi il nemico di se stesso è ormai una banalità. Ma che questo autolesionismo funzioni quasi da alibi è paradossale. Il Napoli che prende tre gol da una squadra normale allenata da dio è lo scatto che mancava, il passo oltre. Abbiamo messo il cervello in autoprotezione, fissiamo il vuoto con l’epistassi al naso, e ci ripetiamo che “si è intravista un’idea di gioco”. Mentre affrontiamo la terza sconfitta di fila al San Paolo: non succedeva dal 2000, dai tempi di Zdenek Zeman. Mentre nei salottini tv si chiedevano: “Napoli è sempre stato un campo difficilissimo per tutti, lo è ancora?”. E le risposte erano incluse nella gerarchia dei commenti: l’Inter che vince, i complimenti a mani basse, e il Napoli che perde ancora, e nessuno se ne stupisce più.

Ci accontentiamo

Questo siamo diventati. Ci accontentiamo. E ci riscaldiamo con le carezze compassionevoli della critica non più feroce. Ora che non mordiamo, siamo diventati un puccioso cucciolo spaurito. A soli 111 giorni da una serata in cui il Napoli batteva il Liverpool campione del mondo – unica a riuscirci nel 2019, a parte l’Aston Villa nella coppa nazionale (ma contro i ragazzini). Appena il 24 ottobre scorso scrivevamo un “longform” su Dries Mertens, accostandolo a Maradona. Era, è stato per anni, ed è – abbastanza incontestabilmente – il miglior attaccante in rosa. Via Ancelotti, dentro Gattuso e… Insigne titolare sempre, Mertens titolare mai. Più che una restaurazione, un cappottamento della logica, anche statistica. Il passato prossimo è un trapassato remoto, nessuno se lo ricorda più. Ce lo teniamo dentro, in intima sofferenza.

La ricerca della serenità

Non è l’accettazione della sconfitta, la consapevolezza che nello sport si perde come si vince, che esistono anche avversari più bravi, ecc… No. E’ la ricerca della serenità, è la castrazione delle aspettative, perché se ti aspetti poco e poco ottieni campi meglio. Dopo anni vissuti in una costante bolla di euforica frustrazione, puf: non siamo né belli come eravamo, né vincenti come non lo siamo mai stati. Siamo normali. E quanto si sta bene, al calduccio, con le emozioni e le tempeste fuori.

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