Attorno a quel cappello da Santo c’è l’aura di uno straordinario truffatore, quasi ti abbassi per controllare che non vi sia una testa a indossarlo ancora e ti accorgi dell’ovvio: non c’è nulla.
Ogni luogo della terra non può fare a meno di lasciarsi raccontare da un tesoro inaccessibile. Così anche Napoli, com’è nella nobile tradizione delle più ammalianti meretrici del mondo, lascia libero accesso al proprio segreto nelle mattine soleggiate di domenica, un accesso umido e seminascosto tre le guglie delle cattedrali e i senzatetto. Tale si presenta l’ingresso al Museo del Tesoro di San Gennaro – ovvero, per chi scrive, una delle poche esperienze distintamente uniche e prepotentemente trascendenti che è possibile fare a Napoli, assieme alla visita al Cimitero delle Fontanelle: entrambi discese, entrambi evanescenze di passaggi sospesi, entrambi monumenti straordinari alla centralità irridente della bugia nella esistenza umana. Tanto vero che entrambi giacciono sulla soglia della secolare (e irresistibile) storia della dottrina teologica – il miracolo di San Gennaro è, per chi sa apprezzarne il sofisma, derubricato a semplice “prodigio” dalla Chiesa Cattolica, la medesima che ha a più riprese biasimato le fantasiose illusioni delle mille leggende che aleggiano sulle anime pezzentelle dell’ossario della Sanità (la stessa Chiesa che, però, ritiene un dogma di fede l’Immacolata Concezione. Ma a parlarne non basterebbero i Monty Python).
Ma chi era Gennaro? Chi o cosa era il titolare di questo nome che attorno a sé muove nel tempo ventunomilaseicentodieci pezzi d’arte di un tesoro – splendidamente gestito dal museo di Paolo Jorio – reso così, assurdamente, il più prezioso al mondo? Gennaro, il Santo, è un signor nessuno la cui storia è costellata di verbi al condizionale: sarebbe nato nel terzo secolo, alcuni lo vorrebbero di Benevento, lo avrebbero gettato in una fornace secondo taluni, tal altri dicono sarebbe stato sbranato dalle fiere dell’anfiteatro di Pozzuoli. San Gennaro è un lembo di carta nella storiografia, un alito leggerissimo di vento e questa leggiadra inconsistenza, questa sua quasi non-esistenza, è sontuosamente testimoniata dall’atto di finzione massima che porta il suo nome: un grumo di sangue che fintamente si liquefa a comando tre giorni all’anno.
“Eppure”. Tutto ruota attorno ad un “eppure”. Eppure, mille anni dopo la sua morte, un re chiama orafi provenzali a crearne un busto in oro e pietre preziose. E di lì poi tutti i regnanti futuri, grandi e piccoli, assieme ad altri signori e signore nessuno, magari a donare quell’unico paio di orecchini rimasto in casa che finirà sulla medesima mirabile Collana del Tesoro, forgiata e rifinita in 250 anni di storia. Nobili e straccioni. Tutto torna. Proprio come spiegherà nel capolavoro di Dino Risi il lapidario Armandino Girasole, detto Dudú, alla meravigliosa Senta Berger, in arte Meggie, distesa voluttuosa e compiacente sul letto: “A Napoli anche un ladro di cappelli è un re”. E di certo lo è chi può dire di no a una donna del genere.
Eppure, ti trovi dinanzi alla mitra gemmata – tremilanovecentosessantaquattro pietre preziose – e finisci col comprendere la potenza dell’inganno. Ché non è importante che quanto si ricordi e si tramandi sia vero ma che la forza della bellezza che esso induce sia invincibile in battaglia. Attorno a quel cappello da Santo c’è l’aura di uno straordinario truffatore, quasi ti abbassi per controllare che non vi sia una testa a indossarlo ancora e ti accorgi dell’ovvio: non c’è nulla. Eppure. Eppure, il nulla non è bastato a fermare decine di generazioni e vortici di meraviglia e intagliatori e orafi e maestri, anzi li ha alimentati, richiamati, amplificati come in una infinita cassa di risonanza. È come se questo piccolo museo dicesse: questa è la bellezza. Sì, essa è custodita e fondata su di un trucco che è inutile scoprire e che bisogna pagare per ammirare. Fin tanto che ci sarà chi sia pronto a farsi traversare da questa illusione, bellezza invocherà altra bellezza – in un turbine continuo, come un branco di leoni affamati, essa va alla caccia e invoca solo bellezza e solo di essa sa nutrirsi, in qualunque luogo. L’ultimo verso di un libro di poesie di Osip Mandel´štam che porto in mano, all’uscita, sembra rispondere in controcanto agli ori e agli argenti forgiati nel nome di una faccia ‘ngialluta:” Proviamo allora: un’immensa virata/maldestra, scricchiolante./La terra naviga. Uomini, coraggio!/Fenderemo l’oceano con vomere di aratro/per ricordare anche sul Lete gelido/che dieci cieli a noi costò la terra”
Dieci cieli. Questo è il peso che ciascuno di noi porta in spalla. Il peso di chi sa custodire la bugia di un Santo.