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Il calcio all’italiana è come il voto alla Dc: ce ne si vergogna in pubblico, ma poi…

Conte replicò piccato a Capello, Gattuso in pubblico infiocchetta in ogni modo una tattica tanto evidente quanto sacrosanta. Perché ci vergogniamo della nostra storia?

Il calcio all’italiana è come il voto alla Dc: ce ne si vergogna in pubblico, ma poi…

Come sarebbe stato accolto Rino Gattuso se nella sua prima conferenza stampa avesse detto: «Mi piace essere sincero, anzi per me è una condizione irrinunciabile. Non posso non esserlo. Sono qui per dire a voi e al presidente che tanta fiducia mi ha dato, che questa squadra e questa tifoseria devono dimenticare Sarri e il cosiddetto sarrismo. Che non dobbiamo vergognarci anche in undici dietro la linea della palla. Compatti certo, ci mancherebbe, undici in trenta metri. Ci chiameranno catenacciari ma noi ce ne fregheremo, perché io col calcio all’italiana, sia pure in una versione riveduta e corretta, ho vinto un Mondiale». La citazione della puzza della strada di Noodle in “C’era una volta in America” sarebbe stata la ciliegina sulla torta.

Ovviamente sarebbe stato massacrato. Tradotto in piazza Mercato in mezzo alla folla ululante. Gli avrebbero detto: “Tranquillo, non accade niente”. E la storia avrebbe fatto il suo corso.

Perché difendersi, giocare diciamo all’italiana, oggi è considerata un’onta. Antonio Conte si inferocì quando Fabio Capello osò fargli notare che la sua Inter si era difesa. Se Capello avesse offeso qualche suo familiare, Conte avrebbe reagito con più compostezza. Più o meno lo stesso vale anche per Rino Gattuso. Che non ha mai ostentato con orgoglio la metamorfosi saggiamente messa in atto con Lazio, Juventus e poi Inter, quando ha abbandonato l’idea del calcio sarrita, il 4-3-3, e ha piazzato due belle linee Maginot a protezione della porta (sempre sia lodato). “Avete messo il Vesuvio davanti alla porta” fu l’atto d’accusa di un interista ferito e sconfitto. No, Gattuso ha sempre puntutamente badato a sottolineare che in realtà non era così. Come se lo avessero scoperto a capo di un traffico di pedofilia o di una rete di usura. Come se la tradizione del calcio italiano facesse schifo (perdonate la brutalità del termine, ma davvero non si comprende questo prendere le distanze da una lezione pallonara che ha scritto capitoli fondamentali della storia del calcio).

Ma perché ci si vergogna del calcio all’italiana? E soprattutto, culturalmente, come si sposa questa presa di distanza, come se si parlasse di appestati, con l’elegia di Enzo Bearzot? Sono meravigliose le puntualizzazioni successive: eh ma non abbiamo solo buttato la palla avanti? Ma perché, scusate, quando è successo? Nell’82 abbiamo vinto buttando soltanto la palla in avanti? Per non parlare del 78. È un falso storico. Come reagirebbero gli esperti se oggi giocassimo e vincessimo un Mondiale come quello spagnolo? Immaginiamo la reazione all’Italia-Brasile 3-2: scuole chiuse (tanto ormai la notizia è quando sono aperte), e manifestazioni di piazza. Dottorini – citazione di Carlo Verdone – col dito alzato. Microprecisazioni sulla differenza tra ripartenza e contropiede, la transizione. E altri neologismi che tanto piacciono.

In ogni sport, esiste la difesa. Il concetto di difesa. Non solo nello sport, in realtà. Ci si difende nella pallanuoto. Nel basket. Nel rugby. Negli scacchi. Nel calcio, chissà perché, è diventato atto osceno. “Io in difesa? Giammai. Piuttosto perdo dieci a zero”. Poi, ovviamente e giustamente, quando si tratta di scendere in campo, ci si affida alla tattica ritenuta più affidabile per avvicinarci alla vittoria.

Il Napoli gioca contro il Barcellona che con Setién è voluto tornare all’antico dopo aver esonerato quell’eretico di Valverde. E a parte gli elogi che Gattuso ha riservato all’avversario, intelligentemente non lo ha certo affrontato a viso aperto. Ha aspettato. ha chiuso ogni varco. Ed è ripartito. Quando Mertens ha segnato lo splendido gol dell’1-0, era il trentesimo minuto e fin lì Dries aveva toccato cinque palloni. Cinque. Quando è uscito, al 53esimo, ne ha toccati tredici. Tredici. Ansu Fati, entrato all’86esimo, ha finito la partita con cinque palloni toccati. Chi se lo ricorderà? Nessuno. Quanto conta? Niente. E un effetto perverso del calcio contemporaneo, quello culturalmente osteggiato da Allegri che possiamo considerare un resistente.

Oggi ci si vergogna del calcio all’italiana come un tempo ci si vergognava, in pubblico, del voto alla Democrazia cristiana. Anni dopo per Berlusconi. Ma lasciamo stare Silvione, meglio rimanere alla Dc. All’epoca il termine endorsement in Italia non veniva utilizzato. Si andava a messa e poi a fare il proprio dovere. In silenzio. Senza dire niente a nessuno. Quel partito è stato la colonna vertebrale dell’Italia. Ma al lavoro, nei bar, a qualche pranzo, quasi nessuno si intestava quel voto. Era solo per opera e virtù dello spirito santo che raggiungeva anche il 40% alle elezioni. Un po’ come il nostro Napoli che è ancora in corsa col Barcellona in Champions. Lunga vita all’ipocrisia. Continuiamo a vergognarci pubblicamente del nostro difensivisimo, basta che non lo abbandoniamo in campo. Perché che il Barça ci abbia costretto nella nostra metà campo col loro titich e titoch, non scalfisce minimamente la nostra autostima. Anzi.

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