A chi si rivolge il Festival più nazionalpopolare del mondo, se finisce così tardi la sera? Agli studenti che se ne fregano? Ai pensionati nottambuli? Certo non a me, che da anni sogno di vederne una puntata intera
Seguo Sanremo da anni. Lo amo. Aspetto febbraio come tanti aspettano l’estate per mettere gli alluci fuori dalle scarpe, per camminare a piedi nudi. Mi piace l’attesa, le polemiche che sempre precedono il Festival, che riempiono pagine e pagine di giornali, poco conta che il mondo è in guerra e il Coronavirus rischia di uccidere tutti. C’è Sanremo. E Sanremo è Sanremo. Va avanti fino all’estate, del resto. Le canzoni ce le propinano fino alla nausea fino all’anno successivo.
Non mi vergogno di questa insana passione. In un’epoca in cui essere nazionalpopolari sembra un peccato capitale, io di questa etichetta voglio fregiarmi. Voglio che tutti sappiano che adoro guardare i cambi d’abito delle “spalle” del conduttore di turno, votare in famiglia (su moduli prestampati uguali da anni) la voce, il testo, il look, l’interpretazione e anche la musica di ogni canzone. E so che tanti lo fanno come e più di me, anche se si trincerano dietro una cronistoria del Festival lanciata sui social per puro spirito di opposizione.
Insomma, io sono una fedelissima del Festival. Ma il Festival, ogni anno, mi tradisce. Perché io, che sono nazionalpopolare, la mattina devo svegliarmi per andare a lavorare e non posso reggere alla maratona sanremese. Mi sento emarginata, esclusa, tradita nella mia profonda italianità.
Vorrei che qualcuno rispondesse alla mia domanda. Il Festival di Sanremo è considerato il Festival nazionalpopolare per eccellenza, va bene. Ma chi è nazionalpopolare per i suoi ideatori? Gli universitari, che certo non preferiscono l’esibizione di Rita Pavone a una serie su Netflix? I pensionati? Quelli nottambuli, che il giorno dopo vanno a fare una chiacchiera col medico della mutua prima di attaccare coi cantieri da guardare oziosi? Quanti di loro sono nottambuli? A chi si rivolge, visto che la “massa” degli italiani la mattina è costretta a svegliarsi presto per portare il pane a casa?
Ieri è iniziata la 70esima edizione. Lo immaginavo dalla vigilia che con la presenza di Fiorello si sarebbe andati più lunghi del solito. E infatti la prima cantante in gara, Irene Grandi, è apparsa alle 21,45. Dopo di lei altri 11. Peccato essere arrivata a vederne solo sei! (e peccato anche, prima, aver dovuto sorbirsi Tecla con i suoi “petali di vita” e “resilienza”).
Sanremo è ormai diventato come i pranzi dei matrimoni. Quelli che alle 16 stai ancora all’antipasto, ma la cerimonia in chiesa è stata alle 8 del mattino.
Chiedo giustizia. Come Commisso contro la Juve, io contro Amadeus. Non devo essere costretta a leggere i giornali per sapere a che ora sono comparsi i primi cambi d’abito, o per leggere dell’esibizione di Anastasio o scoprire che in gara c’è anche una canzone sui ragazzi di Nisida. Chiedo parità con il pensionato del settimo piano, che sicuramente avrà spento la televisione quando per me stava per suonare la sveglia dell’alba.
L’anno scorso, con Claudio Baglioni, le serate infrasettimanali finivano intorno alle 24, orario più consono. Ieri alle 23.30 non ervamo nemmeno alla metà delle esibizioni, e neppure degli ospiti. Degli aneddoti sull’amicizia tra Fiorello e Amadeus, francamente, me ne infischio. Capodanno viene una volta sola, il 31 dicembre, non si può replicare per cinque giorni in una settimana e chiudere, il sabato, con il Veglionissimo, solo perché Amadeus è abituato così.
Della prima serata conservo solo tre ricordi, Irene Grandi che scende dalla scala più inceppata di Rita Pavone, che ha il triplo dei suoi anni. Il maestoso Diodato, elegante e con una bellissima canzone e il grandissimo Achille Lauro. Quando si è strappato la tunica nerodorata da dosso rimanendo in costumino sbrilluccicante nel mio salotto è partita l’ovazione. Per la cronaca, gli ho dato 10, per il coraggio. Poi la penna mi è caduta di mano per il sonno.