Il reportage di Repubblica dalla città più martoriata. Le vittime del virus continuano ad aumentare, ma non c’è più spazio per le bare e neppure nel forno crematorio. Persone che non possono neppure essere piante
Nessuno potrà mai dimenticare la fotografia che ritrae la fila di camionette dell’Esercito, a Bergamo, che porta le salme dei caduti da Covid-19 fuori città. Sessantacinque morti portati altrove, per i quali in città non c’è più spazio. Il cimitero non può contenerli, il forno crematorio è ormai in tilt. Ne muoiono troppi. Ieri altri 60. Lo scenario, devastante, è raccontato da Repubblica, che a questa città devastata dall’epidemia dedica un reportage.
Le bare ormai sono ovunque.
“Bare. File di bare. Una accanto all’altra, poi una sopra l’altra. Bare in chiesa, bare nelle camere mortuarie, dentro e fuori. Bare negli androni degli ospedali. Adesso bare nei camion dell’esercito. Come prevedono le regole della guerra”.
L’esercito si sobbarca anche le spese di trasporto nei forni crematori delle altre città, un atto di delicatezza verso famiglie già martoriate da quella che assomiglia sempre più a una guerra.
Sono morti che ormai non ricevono neppure l’addio dei loro cari. Persino i funerali possono essere luogo di contagio, vietati anche quelli.
“Gente che se va bene riesce a vedere l’ultima volta il padre, il nonno, il marito, su un tablet maneggiato da infermieri imbragati come marziani: gli unici ammessi al capezzale. L’azienda sanitaria Papa Giovanni XXIII di tavolette ne ha distribuite a chi opera nei reparti dove i pazienti Covid-19 sono sottoposti a vari livelli di ventilazione, dalle mascherine Cpap ai tubi”.
Ogni giorno l’elicottero si leva in volo dall’ospedale per portare altrove qualche paziente e fare spazio a quelli che continuano ad arrivare. Nella speranza che l’ondata rallenti.
In una settimana ci sono stati 300 morti e 4.645 contagiati. Cifre impietose. In nessun’altra parte del Paese il virus ha ucciso così.
Le agenzie funebri non riescono più a gestire il servizio. Anche molti dei loro addetti si sono ammalati e non possono lavorare. Repubblica raccoglie la voce del titolare di una di esse, Manuel Baronchelli. Ormai non ha più nemmeno il tempo per dormire. Passa da casa giusto il tempo di farsi una doccia e guardare da lontano la moglie e i figli e torna di nuovo in strada.
«Non ho vergogna di dire che le lacrime scendono continuamente. Ogni volta che suona il telefono tremiamo. Come fai a dire alle persone che stanno soffrendo perché un loro caro è morto, e non possono nemmeno vederlo, che arrivi tra 5-6 ore? Chiudiamo 50-60 bare al giorno. C’è qualcuno che ha pensato ai nostri conti in banca. Non rispondo. Subito dopo i medici e gli infermieri in prima linea ci siamo noi. Abbiamo esaurito le tute, le mascherine, i guanti. Tanti colleghi si sono ammalati e tante ditte hanno chiuso».
A Bergamo, scrive Repubblica,
“i morti sono diventati numeri. Solo numeri. Si contano. Non si piangono perché non c’è modo, l’epidemia annienta ogni forma di affetto. L’unico estremo saluto possibile è rendere pubblica la tua sofferenza”.
E a questo servono i necrologi, le lettere ai giornali, i messaggi condivisi sui social con il ricordo delle famiglie. L’unico saluto possibile.