I napolisti esuli e il coronavirus. Marcello Barbuto vive a Soresina. «Qua strane polmoniti già a dicembre. Cambia tutto quando hai amici e parenti con un tubo in gola»
«Ho rischiato di essere il paziente zero di Codogno che andava in giro per l’Italia a infettare tutti»
Scherza, ma il tono non è certo divertito. Marcello Barbuto vive a Soresina, a circa 20 km da Codogno e a 20 da Cremona. Nel cuore dell’epidemia di Covid-19, insomma.
«Il 19 febbraio sono stato a Codogno da un cliente. Il giorno dopo, il 20, sono stato a Napoli, al Palabarbuto, per vedere la partita della Nazionale di basket nel palazzetto intitolato a mio padre (Lello Barbuto, giornalista napoletano, ndr). Ho viaggiato in aereo, sono stato sugli spalti, con i presidenti federali di tutte le regioni italiane, ho incontrato una marea di gente…».
Quando hai saputo che a Codogno c’era stato il primo contagio?
«Ero ancora a Napoli. Ci abbiamo riso su. Abbiamo pensato “è arrivato pure da noi”. L’abbiamo presa tutti un po’ sottogamba. Pensavamo lo arginassero subito».
E quando vi siete accorti che invece il contagio era ormai avviato?
«Venerdì 21, la sera. Ci fu il primo caso a Sesto Cremonese, a 10 km da noi, ma verso Cremona. Lì sono partiti i primi allarmi. Il sindaco ha capito subito cosa stava succedendo. Il giorno dopo sono arrivati i decreti ufficiali dei sindaci di Crema e Cremona. Chiudevano tutte le società sportive, gli impianti. Era chiaro che stava succedendo qualcosa di importante».
Marcello è convinto, come tanti altri, che in realtà il caso zero sia stato solo l’esplosione evidente di qualcosa che viaggiava già sottotraccia.
«La mia vicina di casa è infermiera, ho molti amici medici. Tutti ci hanno raccontato la stessa cosa. Tra dicembre e gennaio, in Lombardia, c’è stata un’enorme quantità di polmoniti atipiche in persone giovani. Mio figlio, che ha 11 anni, a gennaio aveva problemi respiratori, febbre, tosse, stanchezza cronica. Anche a noi, tra gennaio e marzo sono arrivate piccole febbricole ogni tanto, mal di testa. Sono convinto che più della metà del paese sia positivo».
Il focolaio, nel caso di Soresina, è stato il bocciodromo del paese. Ritrovo degli anziani, ma non solo.
«E’ frequentato da tanti sportivi, perché si trova accanto al palazzetto dello sport, al campo di calcio, a quello di calcetto, al tennis. Tutti gli atleti, dopo aver finito di giocare, si fermavano al bar. Una volta che è scoppiato, il focolaio ha preso mezzo paese».
Ci sono molti contagi a Soresina?
«Soresina conta 8mila anime e i contagiati ufficiali sono 140. Ma ormai non fanno più i tamponi a nessuno da 15 giorni, solo a chi viene portato via in ambulanza. La gente si cura in casa. Solo in caso di crisi respiratoria ti portano via. Ho avuto 7 amici intubati, di cui uno uscito dalla terapia intensiva la settimana scorsa. Ha 44 anni. Aveva solo dei decimi di febbre, poi all’improvviso non ha più respirato. Ha finito di vivere per sette giorni: coma. E’ uscito da sei giorni dalla terapia intensiva e ancora mi dice che si sente come se gli fosse passato un tir addosso. Perché anche quando ne esci, la riabilitazione respiratoria è complicata».
Non si può capire di cosa si parla finché non ci sei dentro, dice.
«Finché non si vive in prima persona, non ci si può rendere conto di cosa significhi. Gli unici rumori che senti sono le ambulanze e le campane a lutto. Esco a fare la spesa una volta a settimana. Mia moglie e i miei figli non escono da un mese. Quando vado al supermercato, riempio i carrelli per evitare di dover uscire di nuovo. Meno si esce, meglio è».
Marcello racconta di aver comprato su Internet delle mascherine, alle prime avvisaglie del disastro.
«20 euro l’una, le Ffp3. I primi venti giorni di emergenza, quando andavo al supermercato con la mascherina, ce l’avevo solo io. Quasi mi ridevano dietro, mi guardavano come fossi un appestato. Perché quelli del Ministero dicevano che bisognava usarle solo se si era positivi, ma lo dicevano perché non ce n’erano. Ora tutti le indossano».
Come si vive in una situazione del genere, nell’epicentro dell’epidemia?
«Chiusi in casa. Per fortuna abbiamo un piccolo giardino e riusciamo ad avere un po’ d’aria. Non è facile. Quando usciamo, per fare il bancomat o la spesa, in giro non c’è un’anima».
E continua.
«Sai cosa? Cominci a renderti conto davvero di cosa succede quando cominci ad avere parenti e amici con il tubo in gola, o quando ti accorgi che conoscenti che vedevi in giro non li vedi più, perché non ci sono più. Allora capisci. La cosa più brutta è che senti le sirene e cerchi di capire chi stanno portando via. Scattano giri di telefonate per capire chi è. Ancora più brutto è che una volta che ti portano via i tuoi parenti, ci mettono mezza giornata per capire dove sei, in quale ospedale, in quale città. Crema, Cremona, Piacenza, Brescia, San Donato, Pavia, Milano. Ad un certo punto avevo amici sparsi dappertutto. E la cosa ancora più drammatica è che i parenti di chi sta in terapia intensiva non possono avvicinarsi all’ospedale. Devono aspettare ogni giorno alle 17 un sms per sapere le condizioni del parente. Stabile, in rianimazione, morto. Stanno morendo tante persone in casa, senza entrare a far parte del conteggio».
Anche a Soresina?
«Soresina è un piccolo paese. I morti ufficiali sono 21, ma a marzo sono morte 49 persone e la maggior parte aveva i sintomi del Covid-19. Non sono stati fatti tamponi. Il numero lo so perché il sindaco, a fine mese, pubblica i nomi dei morti. Lo fa da sempre. Comunque io sono convinto che in paese siamo tutti positivi, tantissimi senza sintomi».
Secondo te è stato fatto tutto ciò che c’era da fare per arginare il contagio?
«L’errore è stato accentrare tutto nelle mani della Regione Lombardia. Il sindaco nei primi tempi a momenti piangeva. Diceva di avere le mani legate, che non poteva fare niente di quello che avrebbe voluto, perché decideva la Regione. Lui avrebbe chiuso tutto. Bisognava fare zona rossa tutta la Lombardia, si sarebbe tenuto tutto arginato qui dentro. Invece è stato preso tutto troppo alla leggera».
Da voi si continua a lavorare?
«La Latteria Soresina è aperta, le grandi industrie di prima necessità e siderurgiche anche. Hanno chiuso le piccole aziende, i ristoratori, i negozi. Il prossimo passo sarà venir fuori dal disastro economico. Presto. Se non ci avrà ammazzati il virus ci ammazzerà la fame. Adesso però è importante risolvere la situazione sanitaria».
Secondo te quando se ne uscirà?
«Non te lo so dire. Qui continuano le ambulanze ogni giorno, non diminuisce. C’è gente che continua a morire. Non so come e quando finirà. Forse stiamo imparando a conviverci. Prima ti spaventavi per un caso di positività accanto a te, adesso quasi non ci fai più caso».
Mi racconti come ti organizzi quando esci e cosa fai quando torni a casa?
«Metto sempre mascherina e guanti per fare la spesa. Quando torno mi tolgo tutto, la mascherina la metto nella sua bustina, uso il disinfettante spray. Quello che si può fare, si fa. Siamo diventati tutti fatalisti: se te la pigli, te la pigli. Usi tutte le precauzioni del caso al supermercato, in banca, alla posta, ma non puoi vivere con l’ossessione».
Qualcuno, dalla Lombardia, dice che baratterebbe volentieri Fontana con De Luca. Tu che pensi?
«De Luca non mi è mai piaciuto, ma è l’unico che sta prendendo in mano la situazione, fottendosene di tutto. Se in Lombardia ci fosse stato uno come De Luca, non sarebbe successo tutto questo casino».
La segui la conferenza stampa della Protezione civile?
«Certo (ride, ndr). L’unico dato veritiero è quello delle terapie intensive. Sono dati che non servono più. Se facessero i tamponi a tutti ,potremmo avere il dato reale. Sono convinto che stiano applicando l’immunità di gregge. Magari tenderanno a far diminuire il numero di positivi ufficiali per far sembrare che tutto è passato. Spero che col caldo qualcosa cambi, non lo so… ma con queste misure qui.. Che attività ha chiuso il decreto Conte? Qua avrebbero dovuto chiudere tutto».
Ma ci sono ancora molte persone per strada?
«Non più. Quando le prime persone conosciute sono state ricoverate in terapia intensiva, allora ci si è resi conto di quello che stava succedendo e la gente ha iniziato a spaventarsi».
Se domani ti dicessero che è tutto finito e che si può tornare a uscire?
«Lo farei. Con tutte le precauzioni del caso. Certo, non aprirei le scuole, ma uscire per andare a lavorare, a produrre, sì. Da qualche parte bisogna ricominciare. Le aggregazioni però no».
Non pensi che avremo difficoltà a tornare ad abbracciare gli altri?
«Sì, ci penso. Io sono uno cui il contatto fisico piace molto, eppure adesso faccio fatica ad incrociare le persone e ad alzare lo sguardo. Sarà difficile stringersi la mano e parlarsi faccia a faccia. Questa cosa ci segnerà parecchio, ma piano piano bisognerà ricominciare. La cosa importante è arrivi la fine. Però (ride, ndr) in compenso abbiamo la casa pulitissima, il giardino perfetto e mangiamo manicaretti mai provati prima…».