Al CorSport: «Nello spogliatoio un compagno mi disse: che bello che sei qua, ora ti prendi tu tutte le responsabilità. Risposi: ecco perché non avete vinto un cazzo finora. Abbiamo reso orgoglioso un popolo».

Sul Corriere dello Sport un’intervista a Paulo Roberto Falcao, ex storico calciatore della Roma. Racconta di quando arrivò all’aeroporto di Fiumicino. Lo aspettavano 500 tifosi.
«Non cercavano me. Se fosse sbucato Pinco Pallino al mio posto sarebbe stato lo stesso. Cercavano la speranza di una rivoluzione tecnica. Del resto di me si sapeva poco come io sapevo poco dell’Italia».
Ma lui, del Paese che lo accoglieva capì subito alcune cose.
«Capii subito che in Italia non è culturalmente accettabile che un calciatore frequenti una discoteca. Anzi, i night, come si chiamavano all’epoca. Preferivo stare a casa, per senso del dovere verso i tifosi che mi volevano bene. E per essere un buon promotore dei brasiliani. Molti volevano venire in Serie A, all’epoca».
Sulla sua quarantena dice:
«Non esco di casa dal 22 marzo. Qui a Porto Alegre non c’è un vero lockdown, a differenza di altri stati del Brasile. Ma è meglio stare attenti».
Un po’ di paura c’è, ammette.
«Non tanto per me ma per il mondo. La gente continua a morire e nessuno, né politici né medici, ha ancora capito come intervenire. L’unica certezza è che questo virus uccide».
Sul calcio e la necessità o meno che riparta.
«Deve ripartire, ma solo quando esisterà il 101 per cento di sicurezza per gli atleti e per tutti coloro che gravitano intorno a una partita. In questo momento mi pare che non ci siamo. Non ancora. Spero che presto potremo tornare a vedere le partite».
Parla della Roma di oggi e dice che secondo lui la delusione dei tifosi per la gestione americana dipende anche dalla sua generazione.
«La mia generazione ha modificato la mentalità, l’ambiente. Ha abituato i romanisti a pensare in grande. Quando arrivai io, lessi subito il motto: la Roma non si discute, si ama. Bellissimo dal punto di vista dei tifosi, che ti sostengono sempre. Ma dannoso per chi deve amministrare una squadra. Nello spogliatoio un compagno mi disse: che bello che sei qua, ora ti prendi tu tutte le responsabilità. Risposi: ecco perché non avete vinto un cazzo finora. Come si fa ad accontentarsi di non vincere? A 67 anni, quando gioco a tennis, se perdo mi viene voglia di ammazzarmi. Invece alla Roma qualcuno si intimidiva davanti all’Olimpico pieno: la paura ti toglie la volontà di vincere».
Falcao parla anche della beffa della Coppa campioni con il Liverpool, quando non tirò il rigore perché stava male. In una intervista di qualche mese fa l’episodio fu stigmatizzato da Sebino Nela.
«Una volta per tutte: non capisco la polemica. Io non riuscivo a camminare per il dolore al ginocchio. L’effetto dell’antidolorifico era già abbondantemente finito durante i supplementari. Ma se anche fossi stato bene, Liedholm mi avrebbe fatto tirare il quinto rigore per scaramanzia dopo il tentativo azzeccato della finale di Coppa Italia contro il Torino. Ma al quinto rigore non arrivammo, purtroppo. Il Liverpool vinse prima».
L’importante, però, è stato giocare la finale.
«Aver raggiunto la vetta. Pensare di poter vincere non significa vincere sempre. Per me conta di più aver lasciato un segno in termini di ambizione e affetto reciproco. Ci siamo divertiti emozionandoci ed emozionando. Non c’è niente di meglio per entrare nella storia».
Nessun rimorso, per quel rigore.
«Rifarei tutto e sono in pace con me stesso. Ripeto, il quinto rigore non è stato tirato da nessuno. Poi ognuno ha il diritto di pensare ciò che vuole».
L’intervista è lunghissima, contiene pezzi di storia. Falcao racconta che alla fine del 1990 Dino Viola, allora presidente giallorosso, lo chiamò per allenare la squadra.
«Era tutto fatto, due anni di contratto. Ma Viola morì poco dopo. È stata l’ultima occasione. Poi nessuno mi ha più offerto un ruolo».
Definisce la Roma «la mia scelta più giusta». E conclude guardandosi indietro.
«Mi sono sentito bene. Non conta essere primi, secondi, terzi. Conta cosa hai provocato. E noi abbiamo reso orgoglioso un popolo».