Al minuto 86 dell’andata un rigore negato cambiò il corso della partita e fece deflagrare la contesa politica (non solo arbitrale) già aperta con il razzismo
Seguiranno due-tre giorni almeno di Gasperini&Gattuso. In tutte le declinazioni possibili. Oggi ha lanciato la volata il Corriere della Sera, ma è fisiologico: giovedì c’è Atalanta-Napoli, il presente ha più di un tema da sviscerare, soprattutto perché questa sfida, in questo momento, parla al futuro. Ma c’è il passato, lì accantonato in una nicchia, con una porticina su una realtà parallela che nessuno ha voglia di riaprire. Napoli-Atalanta, al converso, è – è stata, poteva essere – la partita di Carlo Ancelotti. L’attuale innominabile, ruminato con livore nei primi difficili giorni di Gattuso, e poi digerito dalla città come il male assoluto appena Gattuso ha preso a vincere.
Ci tocca, però, per una innata vena di masochismo, aprire quella porticina. E tornare per flashback al novembre 2019, quello infame dell’ammutinamento e dello scatafascio annesso. Tocca riportare alla memoria quella parte di noi che ad un tratto ci ha creduto: d’improvviso avevamo al comando uno che s’alzava davanti a tutti per cazziare il capo degli arbitri, col peso specifico di un curriculum infinito e poche parole appuntite.
Era una posizione già occupata, un ruolo sostanziale, mica una sorpresa. Ancelotti era davanti a tutti nella rivolta antirazzista, quando la mise sul personale: “È un attacco alla mia persona”, ribadendo che lo schifo dei cori a San Siro contro Koulibaly non era un rivolo insignificante della solita “sparuta minoranza”. Era un fenomeno nazionale, e lui – internazionale di suo – non aveva intenzione di lasciarlo andare. Il Napoli mediaticamente non esisteva, con Ancelotti prese ad avere una voce: aveva mandato il calcio italiano dietro la lavagna. A vergognarsi.
Un attimo prima di rimetterci in carreggiata piallando i toni – a volte recitiamo i virgolettati delle interviste post-partita come da piccoli all’interrogazione di geografia puntavamo tutto sulle barbabietole da zucchero – torniamo a Giacomelli, a Kjaer e Llorente, all’espulsione di Ancelotti, allo sfottò di Tonelli, a Rizzoli. Torniamo ad un allenatore che di lì a poco avrebbero infilato su una graticola, ma che in quel momento aveva un porcile da ripulire, e pur di restituirlo lindo gli avrebbe dato fuoco.
Ricordiamo che a quel forum tra arbitri e dirigenti per il Napoli si accreditò Ancelotti. Il quale, mai come in quel momento, fece il manager all’inglese rompendo con il passato: Sarri era l’allenatore chiuso in campo, Ancelotti era la società.
Repubblica, il giorno dopo scrisse:
Carisma, personalità, autorevolezza, coraggio. Carlo Ancelotti ha atteso il momento più difficile della sua avventura napoletana per tirare fuori gli artigli, dimostrando di non essere solo un “leader calmo” e tanto meno di avere già imboccato il viale del tramonto: a dispetto della paradossale e superficiale accusa che gli viene mossa addirittura da una parte della tifoseria azzurra.
Tony Damascelli, sul Giornale:
“L’aria tossica della serie A ripropone il tema degli arbitri che non sono più cornuti e venduti ma sono diventati, spesso, riders di decisioni altrui. Ancelotti ha esperienza mondiale, non è un arruffapopolo, non si agita come un ossesso a bordo campo ma ha deciso che ogni pazienza ha un limite”.
Ricordiamo, sempre con le parole di Damascelli, che Rizzoli assorbì il cazziatone “prima dandogli ragione al cento per cento, e qui siamo all’autogol comico, quindi provando a spiegare le difficoltà della categoria tra talenti veri e altri con stesso fischietto ma non uguale personalità”. Insomma: le barbabietole da zucchero. Torna a posto, impreparato: 4.
Facciamolo il giochetto delle sliding doors, serva a imperitura memoria: se l’abbattimento di Llorente da parte di Kjaer fosse stata giudicata bene – interruzione del gioco e rigore, o comunque Var ed eventualmente fallo per l’Atalanta – la partita avrebbe capovolto un bel po’ di destini. Forse.
Quel che seguì quella decisione “errata” di Giacomelli al minuto 86 di Napoli-Atalanta fu: Ilicic segna il 2 a 2. Espulso per proteste, Ancelotti viene squalificato. Tre giorni dopo, senza allenatore in panchina, il Napoli perde contro la Roma. De Laurentiis annuncia il ritiro. Ancelotti accetta ma non è d’accordo. Pareggio in casa col Salisburgo. L’ammutinamento. Ancelotti va da solo a Castelvolturno. L’allenamento a porte aperte, gli insulti, la contestazione. Il pareggio casalingo col Genoa. La pausa delle nazionali, il pareggio scialbo col Milan, la bella prova di Liverpool – il momento di lucidità dell’alcolista – il disastro col Bologna, il primo tempo orribile di Udine, il video in cui i giocatori si fermano. Genk, l’esonero di Ancelotti. Gattuso.
Poi, lo giuriamo, torniamo a parlare di Atalanta-Napoli, Gattuso&Gasperini ecc… Però Napoli-Atalanta è stata la grande occasione di cui Napoli non s’è accorta: sfruttare l’enorme vittoria politica che ne seguì, con De Laurentiis a muoversi abilmente nel Palazzo mentre Ancelotti ci metteva la faccia e la statura professionale, da scafatissimo ministro degli esteri. Usare quella crisi istituzionale per guadagnare forza, farne una fondamenta, costruire un blocco. Uscire dalle secche di una posizione sussidiaria, e prendere coscienza di sé.
La storia vera la conoscete tutti. Sta sotto al tappeto con la polvere, e la memoria selettiva. E’ più difficile scriverne oggi, assuefatti al friccicore del lieto fine incombente. Ma andava fatto. Per non dimenticare, come si dice.