Il calendario, gli infortuni, il clima… da Conte e Inzaghi in giù sono alibi e lacrime. Tre mesi fa, pur di incassare i diritti tv, avrebbero accettato l’altoforno

Nel mezzo della lievitazione di nostra pandemia, tra una pagnotta cotta male e un coro affacciati al balcone, l’industria del calcio italiano non vedeva l’ora di stracciare ogni logica pur di tornare in campo. Come i bambini che all’ora di cena venivano richiamati dai cortili mentre le mamme urlavano che il piatto è in tavola, i club di Serie A hanno passato tre mesi a picciare chiusi in cameretta: vogliamo giocare, fateci giocare. Ora che giocano – e giocano allo sfinimento, ogni tre giorni – è tutto un altro piagnisteo: siamo stanchi, “questo non è calcio, è un altro sport”, “i giocatori non sono dei robot”, “lottiamo contro un calendario folle”, eccetera eccetera.
La Serie A di quelli che perdono lo scudetto che con i “se” e i “ma” al posto giusto avrebbero sicuramente vinto accompagna con una infaticabile litania questa orgia di calcio estivo: Inzaghi e Conte, su tutti. Prefiche del campionato al termine della notte. Con la Juve che vince lo scudetto quasi a sua insaputa, e gli altri che si avvicendano ai microfoni per ricordare al pubblico da casa (cioé dall’ombrellone) che “fa caldo”, che “giocando ogni tre giorni non ci si può allenare”, che “i nostri avversari riposano di più”.
Ma vale per tutti, è uno scempio da dichiarazioni post-match. Gattuso, dopo aver sofferto per portare a casa i tre punti con l’Udinese (una delle squadre più in forma della ripresa, pur con una panchina cortissima) ha dettato ai cronisti:
“Giocare ogni tre giorni e senza tifosi è qualcosa di differente, i giocatori non sono robot. Questo non è calcio. Stiamo facendo un altro sport”.
Che sarà pur vero, ma non lo si sapeva prima? Quando i tifosi rimbambivano i figli con la panificazione invece di bestemmiare allo stadio o sul divano, e i Presidenti si posizionavano sul mercato della retorica come grandi capitani d’industria, non lo immaginavano? Perché l’archivio è pieno di “dobbiamo tornare in campo, anche giocando ogni tre giorni. Lo dobbiamo alla gente”. O meglio: “Lo facciamo per il Paese, per l’indotto”.
Sarà che all’epoca – parliamo di maggio 2020, eh – nel disastro delle terapie intensive, al calcio occorreva ergersi a difesa del prodotto interno lordo, colonna portante dell’economia, per darsi un tono. Ma gli stessi che adesso recriminano per l’insostenibilità del pallone 24h in quei giorni avrebbero accettato di mandare i calciatori anche in catena di montaggio o all’altoforno pur di tornare in campo per incassare i diritti tv. Ora no, ora “fa caldo”.
Il caso Lazio è emblematico. Lotito, e il suo comunicatore compulsivo Diaconale, hanno lavorato ai fianchi – per non dire “sfiancato” – il sistema decisionale pur di non vedersi depredati d’uno scudetto ormai nelle loro mani. Salvo sciogliersi come la neve alle prime notturne da 30 gradi. Immobile che navigava verso il record di Higuain ora non vale Lasagna. E Inzaghi ha messo su un drammone a giorni alterni che farebbe impallidire Sarri (per dire dei grandi maestri, che infatti ora restano dignitosamente nascosti).
Il tecnico della Lazio si è lamentato, non in ordine, di: rosa corta, non costruita per partite ogni tre giorni (la Lazio faceva le coppe, ma prima del virus quindi non conta); sviste arbitrali; caldo; infortuni; calendario sfavorevole. Riuscendo a ricrearsi una dimensione parallela nella quale “la Lazio ha giocato due partite in tre giorni”, quando i giorni erano quattro come per tutti gli altri. Ma fa niente: vale l’induzione all’altrui solidarietà. I tifosi sappiano che non è colpa nostra, ecco. Ci hanno incastrati, noi volevamo andare a Formentera come sempre.
Inzaghi ha messo in mezzo anche i parenti, un pianto di sponda. Il fratello, Pippo, ha esplicitamente dichiarato che “senza lockdown la Lazio avrebbe sicuramente vinto lo scudetto”. E lo sa perché lui possiede il Grande Almanacco Sportivo, quello di Ritorno al Futuro.
L’Inter che, nonostante crisi e melodrammi interni, era accreditata fino ieri di poter ancora lottare per il titolo, una volta pareggiato con la Roma, ha definitivamente svelato l’arcano. L’alibi di Antonio Conte è:
“Stiamo lottando contro un calendario folle, che vuole metterci in difficoltà. Le nostre avversarie hanno sempre un giorno, un giorno e mezzo in più di riposo rispetto a noi che giochiamo sempre alle 21,45 e poi viaggiamo. Gli orari li sceglie la Lega? Forse noi non eravamo presenti quando hanno fatto il calendario. Se vola uno schiaffo lo prende l’Inter”.
Mazzarri, con il suo eterno “Stavamo giocando bene, poi è venuto a piovere”, non era nessuno.