Al Chelsea ha vinto. Con la Juve ha sì perso due finali ma è primo in campionato e in corsa per la Champions. Quel che non gli viene perdonato è non aver riprodotto il gioco di Napoli

Quello che ha fatto con il Napoli, la forma del suo calcio è un brindisi al sole. Ha fatto molto bene, veder giocare questa squadra sul divano per uno che guarda calcio è uno spettacolo.
È fine maggio del 2018 quando Pep Guardiola indirizza probabilmente i complimenti più belli e autorevoli a Maurizio Sarri, per ciò che è stato capace di esprimere nel suo triennio napoletano. Due anni dopo, con un trofeo e mezzo in bacheca, le critiche sono più aspre che mai.
Eppure in Inghilterra ha vinto al primo anno l’Europa League, ha perso la coppa di lega soltanto ai rigori e ha riportato il club in Champions. Alla Juventus, ha sì perduto due finali su due, ma ha comunque un vantaggio considerevole in campionato. Prima del lockdown, aveva il miglior rendimento per un allenatore esordiente in bianconero. In Champions League, poi, deve ribaltare una recuperabile sconfitta per 1-0 rimediata a Lione.
Tra i motivi di un certo accanimento, rientrano senz’altro i trofei che non ha raggiunto al suo rientro, la Supercoppa Italiana e la Coppa Italia. Ma è ben noto come alla Juventus abbiano una rilevanza relativa.
Semplicemente Sarri è rimasto intrappolato da ciò che è stato in grado di fare a Napoli, dal sarrismo, dal Sarri-ball, dall’essere diventato rappresentante acclamato per sovvertire l’egemonia del calcio italiano. È rimasto intrappolato da quel che con una buona dose di cattiveria o, se volete invidia, Allegri definiva circo.
Eppure ciò che il tecnico ha sempre saputo, e che ha ripetuto a più riprese, è che quanto fatto a Napoli è irripetibile per una serie di fattori che spaziano dalla disponibilità per la squadra al rapporto viscerale con l’ambiente.
L’origine del malcontento arriva innanzitutto dal campo. A Londra come a Torino si sperava di veder riproposto quel calcio così appagante e divertente con altri interpreti, spesso migliori rispetto a quelli che aveva a Napoli. In entrambi i casi non è andata così. Al Chelsea non ha avuto la stessa presa, molti dei calciatori gli hanno contestato i metodi di allenamento ossessivi. Alla Juve, forse, non ci ha proprio provato e tuttora dà l’idea di non aver individuato con chiarezza schemi e interpreti.
La sua mano è comunque visibile nelle uscite palla al piede e nelle combinazioni a ridosso dell’area di rigore, situazioni sublimate dalla tecnica sopraffina di giocatori del calibro di Dybala. Ma il gioco espresso non è riconosciuto e riconoscibile come lo era a Napoli. E l’ambiente Juve un altro Allegri non lo voleva. Non lo voleva nemmeno chi spingeva affinché rimanesse, perché la missione di quest’anno non era solo vincere ma essere belli, divertenti, votati all’attacco. Costantemente.
Una pulsione generale a cui si sono dovuti arrendere tutti e da cui si può sfuggire in un solo modo: vincendo. Ma nel caso di Sarri sarà ancora più complesso. Conquistare soltanto lo scudetto non basta. Anche l’allenatore rientra nell’operazione Champions che la Juventus è intenzionata a perseguire con ogni mezzo. E soltanto in quel caso avrà ragione lui. Altrimenti avrà l’aggravante di non aver dato una svolta, di non aver vinto nemmeno le competizioni minori, di esser stato incapace di imporre i propri dettami tattici alla squadra.
Giudizi severi, che un bel gioco avrebbe senz’altro ammorbidito. La verità è che Allegri ci aveva visto giusto solo in parte, quando diceva che per lo spettacolo si va al circo, perché contano solo i risultati. D’altronde, anche il più incallito dei circenses riconosce il panem, le coppe in bacheca. E paradossalmente, quest’ultima è diventata l’unica strada percorribile, per Sarri, per essere accettato dal più esigente degli ambienti.