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L’ultimo show di Ibrahimovic l’anti-Totti: senza maglia e senza patria

Ha regalato al Milan un po’ della sua autosufficienza, e si avvia a chiudere una carriera da rockstar nel pieno di una superiorità ormai quasi mistica

L’ultimo show di Ibrahimovic l’anti-Totti: senza maglia e senza patria

Lui era Zlatan ancor prima di esserlo, e non per altro la successiva domanda (“e voi chi cazzo siete?”) avrebbe attanagliato un ventennio di avversari. Chi siamo noi mentre lui, Ibrahimovic, sa perfettamente di essere Zlatan? Nel 2020 in molti hanno accettato la risposta: siamo i suoi spettatori paganti. E non solo chi davvero paga per assistere ai suoi “live” – la definizione è sua -, ma anche i compagni e chi gli gioca contro. Fa tutto parte del suo spettacolo. Ibrahimovic è una rockstar al suo ultimo tour mondiale.

Con la Juve sopra 2-0, e lui pronto dal dischetto, Ronaldo va da Szczęsny e gli dice: “Lo conosci, sai dove tira”. Ibrahimovic segna, ovviamente, tirando dove gli pare. Poi cerca lo sguardo di Ronaldo. Serio, poi gli ride in faccia. Nessuno conosce Zlatan. E se prima ti colpiva con l’espressione incazzata, ora – sarà la saggezza, la vecchiaia – è come se avesse perso il rancore per la via. Ora sorride, ti sfotte, è un gioco. E’ imperturbabile come il rigore che tira alla Juve. Lo avvolge una superiorità ormai mistica, totalmente autoriferita.

“Sono presidente, allenatore e giocatore. Faccio tutto insieme, però mi pagano solo come calciatore”.

D’altra parte, Pioli, il suo vice-allenatore, e Maldini, il suo vice-presidente, sono già fuori dal prossimo Milan. Lui si accoda, non gli piace questa aria che tira, non lo hanno considerato come avrebbe meritato. “Fossi venuto prima avremmo vinto lo scudetto”, dice. Ma andrà via come al solito. C’è un motivo se Ibrahimovic non è mai piaciuto a grandi allenatori come Sacchi, Cruyff o Guardiola: Ibra non aveva bisogno di loro. Né di una casa, di una famiglia, figurarsi di un padre, o un mentore. Basta un palco.

E infatti poi, dopo aver innescato il rimontone storico del Milan, va al microfono e annuncia:

“Sono contento di giocare, mi dispiace per i tifosi che può essere che è l’ultima volta che mi vedono live. Non voglio fare la mascotte”

Che nella versione in prosa significa che si avvia a chiudere, e lo farà senza psicodrammi, nostalgie, un pubblico a cui dettare un addio. Ibra sa che dovrebbe fare un giro del pianeta intero, il suo campo da gioco. Ci metterebbe un mese. E’ l’anti-Totti: s’è costruito una carriera fieramente apolide, con pochi legami facili da slacciare, ne ha fatto una ragione di vita.

E’ un paradosso, lo è sempre stato. Ha mandato tre o quattro generazioni di adolescenti su Youtube a collezionare i suoi gol assurdi, gli scorpioni, quei calci disarticolati, i disarcionamenti di intere difese, i voli, le rovesciate, e tutto il campionario. Invecchiando come Mick Jagger, mentre altri finivano al pianobar. Ha piazzato svariate madeleine nel passato dei tifosi di un’infinità di squadre in giro per il mondo. Riuscendo ad accentrare tutto su di sé, per farsi indimenticabile. Un enorme buco nero che ha inghiottito le attenzioni del contesto. Esotico e indecifrabile.

Ha fatto un miracolo: uno così odioso – volontariamente antipatico e appuntito – non può farsi amare a questi livelli. E’ una perversione. E’ l’esatto opposto di Totti, appunto: non c’è amore della maglia, della città, dei colori; non c’è appartenenza, ma nemmeno gratitudine. Eppure.

L’Ibrahimovic del Milan, la sua ultima versione, è quello più maturo. E’ un accentratore diverso: prima calamitava l’agonismo della partita, ora lo fa da gestore emozionale. Corre la metà, ma si fa trovare in mezzo al campo per fare la sponda, dare spallate nella difesa delle palle lunghe, riciclando palloni sporchi per servirli infiocchettati ai compagni.

Come contro la Juve: segna un rigore danzando sulla personalità di un tipetto come Ronaldo, poi si siede in panchina e libera i suoi ragazzi: Rebic, Leao… Loro affondano i campioni d’Italia, e lui in panchina dirige l’orchestra. Richiama, istiga, sfotte, o semplicemente punta lo sguardo su chi merita o demerita. Ibra ha regalato al Milan la sua autosufficienza. Ne ha per tutti.

Nel 2020 siamo ancora qui a scriverne, volontariamente senza riportare alla memoria l’enciclopedia di aneddoti che ha piazzato in carriera. Il folklore a volte svia, e svilisce. Ibra s’è più volte posizionato appena sotto dio. Uno così, arrivati alle ultime tappe del tour, va solo vissuto.

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