“Poteva rivelarsi una parodia devastante del capitalismo consumistico”. E invece ha funzionato tutto, e si è giocato un gran basket. Un esempio – forse irreplicabile – di convivenza dell’industria dell’intrattenimento con la pandemia
«Nel momento in cui sono entrato a Disney World, mi sono sentito estremamente triste. Stavo guidando da solo in un’auto a noleggio ipersanificata, indossando due mascherine e un paio di guanti usa e getta, con tutti i finestrini abbassati per far volare via qualsiasi virus persistente. L’atmosfera della Florida zampillava dappertutto, sommergendomi con il suo respiro ‘jungly’. Il termometro sul cruscotto diceva 38 gradi. L’autostrada mi ha portato davanti a diversi parchi a tema: SeaWorld e Universal Studios e un’attrazione basata sulla Bibbia chiamata The Holy Land Experience. Ad un certo punto, ho superato un finto vulcano. Sui cartelloni pubblicitari armi, ospedali, avvocati e Botox. E poi eccoli lì: Topolino e Minnie, su entrambi i lati della strada, che mi fanno gesti di benvenuto in guanti bianchi. Un grande arco promette, in un alfabeto corsivo, che avevo raggiunto il luogo “Where Dreams Come True”».
Comincia così il lunghissimo reportage dall’interno della “bolla” NBA che il New York Times ha affidato allo scrittore Sam Anderson. Un viaggio nell’americanissimo esperimento – riuscito – messo in piedi dalla più grande industria sportiva del mondo, per resistere alla pandemia: chiudere i più forti giocatori di basket del pianeta, superstar comprese, fino a tre mesi dentro un unico grande complesso isolato dal mondo esterno. Per dimostrare che si può fare, se si vuole. E che forse è anche l’unico modo. L’alternativa è il caos che stiamo vivendo in Italia in questi giorni, col calcio.
Anderson descrive una Florida “focolaio furioso”. “L’aereo per Orlando era quasi vuoto, così come lo stesso aeroporto. L’allegro ingresso di Disney World sembrava l’uscita di una strada chiusa da decenni, il percorso verso una vecchia fantasia americana definitivamente scaduta”.
«In teoria, “bolla NBA” suona ridicola, come una parodia devastante del capitalismo consumistico. Nel bel mezzo del nostro incubo globale, il campionato di basket più potente del mondo ha deciso di terminare la sua stagione nel rifugio color caramello del parco a tema più famoso del mondo. La bolla era come un circo, incrociato con un ritiro aziendale, incrociato con una missione spaziale. Era la March Madness a Versailles».
Lo scrittore dice di aver accettato l’incarico per osservare da vicino “l’inevitabile fallimento dello schema”: “Con lo stesso identico spirito accetterei di andare in Antartide con una bicicletta a scatto fisso per vedere una riunione dei Beatles”.
«Il basket è uno sport sudato pieno di contatti, che richiede eserciti di operatori di supporto. Il virus era già penetrato in ogni altro spazio d’America, dalle crociere di lusso alla Casa Bianca. Anche se, per miracolo, la bolla si fosse mantenuta priva di virus, la qualità del basket sarebbe stata probabilmente terribile».
E invece ha funzionato. Nonostante, per definizione, “una bolla è sempre sul punto di scoppiare”.
«I giocatori hanno viaggiato fino a Disney World da tutto il mondo e sono stati messi in quarantena, da soli, nei resort sul lago. Le squadre hanno iniziato a fare allenamento. Il 30 luglio è ricominciata la stagione ufficiale. I giocatori si spintonavano e si alitavano l’un l’altro e si scambiavano il cinque. Sembrava un film da un altro mondo. Anche altri campionati sportivi hanno provato a ripartire, con alterne fortune. La Major League Baseball ha costretto intere squadre ad abbandonare improvvisamente il calendario».
Le descrizioni ambientali sono letteratura:
«Le partite nella bolla si svolgono in una tasca pastello di Disney World chiamata ESPN Wide World of Sports. Per arrivarci, ho preso un bus navetta (“Sono stato testato ogni giorno!”, leggi su un cartello accanto all’autista) lungo una strada chiamata Victory Way, oltre un cartello con Pippo che dice “Gawrsh”, oltre il ballo di Epcot e il Epcot World Showcase. Allungando il collo, riuscivo a distinguere il retro di una struttura chiamata The American Adventure, un’attrazione in stile coloniale dove i visitatori possono imparare la storia della nostra nazione da animatronic con le sembianze di Benjamin Franklin e Mark Twain. La navetta è passata attraverso un posto di blocco di sicurezza che mi ha fatto pensare a zone di guerra: strade vuote, barriere di cemento, luci lampeggianti».
«Abbiamo camminato tra le arene attraverso barricate di metallo, sui marciapiedi svolazzanti con le lucertole della Florida e pattugliati da cani che fiutano le bombe. Siamo passati attraverso punti di controllo della temperatura e metal detector; ci sono stati dati sensori elettronici da indossare al collo in modo che se fossimo a una distanza inferiore a sei piedi l’uno dall’altro, i sensori avrebbero lampeggiato e suonato».
La sensazione generale, si capisce, è straniante: “Era strano guardare le superstar NBA che fanno cose da superstar in edifici grandi come palestre di scuole superiori. Sembrava quasi una camera di deprivazione sensoriale“. E il pezzo descrive anche tutte le accortezze sanitarie:
«I raccattapalle indossavano tutti maschere nere e guanti viola. Tra una partita e l’altra, ogni superficie del campo sarebbe stata sistematicamente pulita. Anche il bordo veniva pulito, facendo circoli attenti e delicati, con uno strumento speciale all’estremità di un palo che sembrava un periscopio».
Ma soprattutto la qualità dello spettacolo viene descritta come “incredibilmente alta”:
«Il livello di gioco era incredibilmente alto. Questo è stato uno dei grandi doni inaspettati della bolla. In qualche modo tutto questo isolamento e stranezza si sono combinati per produrre una forma di basket altamente concentrata, un puro colpo di bellezza ed esuberanza in una nazione affamata di queste cose».
Alla faccia del mantra del pallone: “Senza tifosi non è calcio”…
Ma poi il pezzo affronta il nodo cruciale: ha senso tutto questo? Ha senso montare un circo del genere per far andare avanti lo sport in un momento in cui il mondo affronta una catastrofica pandemia mortale?
«Il basket è importante? L’intrattenimento è importante? Cosa significava che il modello più visibile di salute, normalità e competenza logistica del nostro paese lo mostra un campionato sportivo professionistico?»
«Lo sport, al suo meglio, risponde a un profondo bisogno umano. Siamo affamati di significato. Vogliamo sapere che ciò che facciamo è importante. Il gioco stesso è una bolla dentro la quale il significato è indiscusso. Non importa che i confini di quella bolla siano arbitrari: che i nostri giochi dipendano da regole bizantine e da divise colorate, timer e fischietti. Se non altro, questo rende l’illusione più potente. Abbiamo creato uno scopo dal nulla, come gli dei. Dentro le righe di un campo, le nostre azioni hanno perfettamente senso: alcune sono buone e altre sono cattive, e alla fine c’è un risultato. Tutto dipende solo dalla nostra volontà collettiva di credere».
La bolla NBA, ora che si avvia a scoppiare definitivamente dopo le finals in corso tra Lakers e Miami, si può dire un enorme esperimento economico e sociale, perfettamente riuscito. Ma chissà se riproducibile.
«Dentro la bolla il basket era eterno. Il Covid non poteva toccarlo. La politica non poteva toccarlo. La bolla, contro ogni previsione, si era rivelata indistruttibile».