In un’epoca sospesa come quella in cui viviamo a causa dell’emergenza sanitaria, è giusto che ogni attività, anche sportiva, finché possibile vada avanti. Ma non banalizziamo il calcio ad un meccanicistico prodotto di consumo
“Che facciamo, andiamo?”… “Eehhh… tu che dici”? Alla fine andammo, e quegli abbracci ai gol di Cavani furono più per “proteggere” che per esultare. Io e Maria Rosaria, di lì a poco mia moglie, avevamo appena scoperto di aspettare un figlio. Due settimane prima, ignari di essere già genitori, avevamo assistito, insieme al solito Gruppo di amici (Curva B, solito posto), ad un’altra partita di campionato. Eh sì perché il “regalo” dell’abbonamento fu il suggello di un lungo corteggiamento. La scusa era questa: se ci vediamo la sera prima il Napoli vince…
Quelli che troppo spesso ci si affretta a chiamare spettatori sono in realtà una “razza” umana, unica eppur comunissima, che in “microcosmi” riempie le gradinate di uno stadio. Rituali e posti, scaramanzie e “marenne” sono il substrato magico di uno sport che è passione autentica: chiamateci tifosi, sostenitori, malati, ultrà, ma non chiamateci spettatori. Perché se volessimo, la partita l’avremmo sempre vista da casa con i sedici replay che eliminerebbero in un istante quel gorgoglio unanime, che in curva fa spesso seguito ad una sfrenata esultanza: “ma chi ha signat”? Un must di ogni Curva, non soltanto al San Paolo con i suoi 200 metri di distanza dall’azione di gioco. Fu così anche nelle ore (notturne!!!) che separavano Manchester da Londra; subito dopo la partita eravamo in auto per Londra – unica coincidenza possibile l’aereo delle 6:00 da Stansed per consentire a Vincenzo di essere in ufficio la mattina seguente alle 9:00 – tutti convinti che la galoppata all’Ethiad che consentì a Cavani di realizzare la prima storica rete in Champions fu di Dzemaili e non del “mitico” Cristian Maggio.
Il tifo è questo: storia e storie che s’intrecciano. Altrimenti non si spiegherebbe perché a Pasqua di qualche anno fa, ero a Mazara del Vallo, ospite di Mario che avevo conosciuto giusto un paio di mesi prima affastellato nel settore ospiti di San Siro. Oppure perché, sempre a Milano, ci ritrovammo in 46 al Cantinone, il ristorante di Luisa, napoletana d’origine e “malata” come noi conosciuta attraverso un altro “emigrante”, Salvatore che incrociai per la prima volta a Londra, per la partita col Chelsea. E poi c’è Carmine, collante del “Gruppo”, passato all’“opposizione” dagli acquisti di Mesto, Behrami e Gamberini per sostituire il Pocho Lavezzi; la sezione di Roma, con Peppe e Vittorio che si sono imbarcati chilometri in modalità A/R in giornata anche per un banale Napoli-Pescara. Menzione a parte per Gianluca, trasfertista d’eccellenza: in altri tempi ci avrebbe già comunicato tutte le combinazioni di volo per San Sebastian, Rijeka ed Alkmaar per seguire gli Azzurri in Europa.
Un gruppone di amici cementatosi a suon di gol e trasferte, ma anche di matrimoni e battesimi, ma che ora di Juve Napoli, la partita delle partite, non discute d’altro che di tamponi e incubazione, di Asl e Lega, di 3-0 a tavolino. Moduli e giocatori, polemiche e tattiche sepolti insieme alla nostra passione. Come è possibile solo immaginare, come ha dichiarato Pirlo in conferenza stampa, che l’approccio alla partita sia stato uguale a tutte le altre, quando sul match pendeva da una settimana una spada di Damocle che ha la fattezze di un cottonfioc da infilare in gola? Com’è possibile solo ipotizzare che Koulibaly o Mertens, Bonucci o Ronaldo non pensino alla possibilità di altri contagi Covid come presumibilmente successo a Zielinsky ed Elmas che hanno incrociato i “colleghi” genoani? Quanto accaduto ieri sera e gli strascichi di stamattina sono, forse, il colpo di grazia alla morente passione per il calcio; l’ultima secchiata d’acqua sul leggero fuoco che ancora ardeva sotto la cenere di un calcio da guardare senza toccare.
In un’epoca sospesa come è quella in cui viviamo a causa dell’emergenza sanitaria, è giusto che ogni attività, anche sportiva, finché possibile vada avanti. Ma non banalizziamo il calcio ad un meccanicistico prodotto di consumo, perché se è vero che il romantico motto Ultras, mal che vada stiamo insieme, che meglio sintetizza lo spirito di chi ama vivere il tifo, è gioco forza superato dai fatti, evitiamo, almeno, che quel cuore che batteva, un giorno all’improvviso, non s’innamori più.