Al CorSera: «Passai nelle vicinanze di un ponte, pensai: basta un passo. A chi non è capitato? Siamo soli, in campo e nella vita. La terapia ha bruciato l’atleta, sono tornata un essere umano»

Il Corriere della Sera intervista Francesca Schiavone. Ha pubblicato un libro, «La mia rinascita»: 150 pagine in cui la tennista racconta come l’ha cambiata la malattia, il linfoma di Hodgkin, da cui per fortuna è guarita.
«Diamo troppe cose per scontate, la malattia invece ti insegna a stare calato nel presente e a goderti ogni istante. Io ne sono la dimostrazione: se hai un sogno, puoi realizzarlo».
Continua:
«La malattia è una galera. Oggi apprezzo il dono della vita. Sono sempre andata a messa, mi ci portava la nonna. Credo in forze superiori a noi e, finita la chemio, mi ero ripromessa di pregare di più. Nella casa in campagna ho libri di psicologia e filosofia: quando diventano complessi mi incasino, vado avanti, torno indietro. Però l’energia dentro di me la sento».
Racconta di essere stata un’adolescente «indecifrabile, oppositiva, scontrosa, ruvida». Di essersi sentita «incompresa» e di aver anche pensato di farla finita, dopo una sconfitta in Sicilia.
«Avevo la sensazione di non ripagare i sacrifici che i miei stavano facendo per me. Passai nelle vicinanze di un ponte, pensai: basta un passo. A chi non è capitato? Siamo soli, in campo e nella vita. Forse solo un figlio può colmare questo vuoto».
La malattia l’ha cambiata. Dice:
«Io sono amore».
E spiega perché:
«La prima volta l’ho avvertito a Parigi. Avevo passato la mattina a piangere, non volevo giocare la finale. Ma quando sono entrata in campo ero così piena di amore per il presente, per quel che dovevo fare, per la mia vita che mi aveva portata fino a lì, che ne sono stata travolta».
Racconta la vittoria sulla malattia.
«Avevo il cuore allenato dallo sport, le vene hanno ricevuto buchi su buchi ma hanno retto. La dottoressa mi ha chiesto costanza: vieni per la chemio ogni due settimane, prendi la pastiglia, segui la dieta. La disciplina che richiede voler guarire non l’ho patita: me l’aveva già data il tennis. La terapia ha bruciato l’atleta, e sono tornata un essere umano».